Parafrasando un film del mai dimenticato Troisi, Jon Bon Jovi e compagni, magari con le mani posate sulla copertina di ‘Burning Bridges’, potrebbero dire “Ricominciamo da tre”. Ne avrebbero tutte le ragioni. Dopo la defezione dello storico chitarrista, Richie Sambora – sicuramente, dopo Jon, il più ‘in vista’ della band – che si è dedicato alla carriera solista, ora, gli oneri e gli onori, ricadono sul terzetto dei sopravvissuti. Comunque, anche durante la militanza di Sambora, I Bon Jovi hanno sempre avuto un’anomalia nella formazione, ovvero, sono sempre stati un gruppo a cinque mancanti… del quinto.
Infatti, il bassista ufficiale, pur nei concerti presente, non è stato mai formalizzato veramente. Bene, adesso, saranno un quintetto lo stesso, tuttavia mancante di ben due musicisti, i quali e probabilmente, saranno reclutati di volta in volta.
‘Burning Bridges’ è ormai da qualche giorno in circolazione. L’abbiamo ascoltato. In linea di massima è il tipico album di transizione, fatto con professionalità. Forse manca il peculiare quid che da sempre ha contraddistinto la produzione dei Bon Jovi. Sicuramente, l’addio di Sambora si è sentito. E, probabilmente, anche il distacco con la label che li ha visti diventare star mondiali, ha avuto la sua influenza. Dopo 32 anni di sodalizio con la Mercury Records, gli artisti del New Jersey salutano: ‘Burning Bridges’ è un’uscita discografica di marca contrattuale.
Gli stessi interessati, a proposito di quest’ultimo punto, hanno segnalato che i brani sono quasi tutti stati composti tempo fa. Alcuni non avevano trovato posto in altri dischi ufficiali.
La titletrack – che chiude il cd – sorprende: ‘Burning Bridges’ presenta Jon che canta e saluta nelle diverse lingue del mondo; l’arrangiamento country è carino, tuttavia molto soft, per una band famosa anche per il genere hard rock .
Il primo brano che apre è invece ‘A Teardrop To The Sea’, un lento di buona fattura che, come sonorità, ricorda l’album ‘Destination Anywhere’. Segue ‘We Don’t Run’ che ha in comune con ‘Teardrop To The Sea’, la stessa tipologia di coro: questo si apre verso un ritornello trascinante e caratteristico di certi Bon Jovi. L’assolo non è firmato da Sambora, ma da un altro chitarrista: Shanks.
Con ‘Saturday Night Gave Me Sunday Morning’ si accede a un terreno scivoloso perché, pur essendo una canzone gradevole, alcuni fan hanno scorto nella sua scrittura molte analogie con una produzione dei Nichelback: ‘Gotta Be Somebody’. Jon ha riferito che la loro canzone risale ad alcuni anni fa. Quindi, la somiglianza dovrebbe essere del tutto casuale. C’è anche il pop-country di ‘We All Fall Down’, una canzone gradevole. Jon propone anche una song pianoforte/voce che si chiama ‘Blind Love’ (forse un po’ lunga, anche se d’atmosfera). Un bel giro di basso (tuttavia, non aspettatevi Harris dei Maiden), invece, caratterizzano ‘Who Would You Die For’. Se si dovesse indicare la canzone più valida dell’album, la scelta ricadrebbe sicuramente su ‘Fingerprints’: la chitarra acustica di base ne aumenta, se possibile, il valore artistico.
Un brano che avrebbe ben figurato in ‘What About Now’ è ‘Life Is Beatiful’, composizione che ne riprende i suoni pur non brillando di gran luce. L’ultima canzone in esame, ‘I’m Your Name’, partecon unottimo intro chitarristico e si manifesta per quel che è: una canzone raggiante e divertente.