Venerdì 13 gennaio è uscito, quanto mai atteso, il nuovo disco dei Baustelle a quasi quattro anni di distanza dall'ultimo lavoro di inediti: Fantasma. Proprio per l'importanza e lo spessore di quello stesso concept è inutile negare che c'era una sorta di leggittima curiosità. Ad aprire "L'amore e la violenza", questo disco di dodici canzoni, sono 50 secondi strumentali dal sapore barocco che possono far credere ad un ricalcare la strada del disco precedente, caratterizzato da arrangiamenti orchestrati e complessi. Ma l'intro si blocca di colpo, quasi a voler cacciar via il pensiero.

Come a chiudere quella parentesi, niente più orchestra, ma il suo fantasma ovvero il Mellotron. Così il suono vira immediatamente, si alleggerisce con le melodie che si aprono e spaziano libere.

E dalla prima canzone si capisce una delle frasi usate dal cantante Francesco Bianconi per descrivere il disco nei mesi scorsi: "Sarà un disco oscenamente pop". Un pop di quelli che non si sentono alla radio, leggero negli accordi, colorato e ritmico. Eppure impegnato, disilluso e a volte ben poco rassicurante. "Il vangelo di Giovanni", è un chiaro esempio di dove il trio di Montepulciano abbia avuto la forza di spingersi, in un luogo di confine della musica italiana. In zone ad alto rischio, dove i passi falsi sono all'ordine del giorno.

Per intenderci, là dove si era fermato Battiato con "La voce del padrone".

E proprio a Battiato, in alcuni ritornelli, non si può evitare di pensare: "Io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera meglio sparire nel mistero del colore delle cose quando il sole se ne va...". Ciò nonostante la libertà della citazione nei Baustelle non si è mai banalizzata in una inutile imitazione.

L'impronta del loro stile, della loro poetica, in questo disco è ancora più marcata.

Stranamente dalle prime interviste è emerso il blocco delle scrittore di Bianconi davanti alla musica dei brani composta in precedenza. Un blocco superato grazie ai temi che negli ultimi due lavori si era prefissato. Proprio in quest'ultimo il connubio fra musica e testo è davvero riuscito.

Il non cambiare una nota a favore del testo, dogma per la band, non è semplice e riuscire a incastrare dei testi così complessi in musiche così "leggere" è sicuramente uno dei tanti meriti del lavoro svolto, oltre ad una delle prime piacevoli sorprese.

Sarebbe facile soffermarsi all'orecchiabilità di brani come "Amanda Lear" e "Eurofestival", ma è scendendo in profondità, analizzando frammenti di frasi come "niente dura per sempre nemmeno la musica" o "dalla Turchia all'Albania posti di blocco, posti di polizia..." che si assapora il loro autentico synth-pop. I punti più alti del disco sono sicuramente "Betty" e "Ragazzina", in particolare la prima, una piccola perla destinata a durare nel tempo.

La seconda esplode in stile pinkfloydiano prima d'invocare il re del cielo "fra Gesù bambino e l'uomo nero".

C'è spazio per echi di sintetizzatori progressive ormai dimenticati, il tutto senza batteria. O meglio con l'ausilio di campionamenti ritmici, quindi una "ultra batteria" composta da auto campionamenti registrati dal percussionista De Gennaro e micro samples estratti pazientemente da vecchi vinili. Il tutto appare vintage, nel senso più nobile del termine. Il tema di questo disco è chiaro: l'amore nonostante la guerra, nonostante tutto quello che sta succedendo in Europa e nel mondo, nonostante le bombe e gli attentati. Quindi è un'altalena di emozioni, di sensazioni e umori. è malinconia e speranza, è ballare con le lacrime agli occhi.