“Storia della nostra scomparsa”, romanzo d’esordio di Jing-Jing Lee, edito da Fazi Editore a iniziò 2020, mira a dare voce a tutte quelle donne che per anni hanno vissuto nell'oblio, spesso con la speranza di venire dimenticate.

Segreti e confessioni, tra passato e presente

Wang Di non ha molti sogni, si chiede come sarà la sua vita quando i genitori la daranno in moglie. Quando non deve andare al mercato, si ferma sotto le finestre aperte della scuola immaginando di imparare a leggere e scrivere. Quando viene strappata dalla sua famiglia è poco più che una ragazzina e l’esercito nipponico ha appena invaso Singapore.

Le donne del suo villaggio hanno iniziato a sposarsi o a vestirsi da maschio, sperando così di sfuggire ai rapimenti perpetrati dai militari giapponesi, ma Wang Di non fa in tempo ad attuare nessun piano. Un giorno i soldati la caricano su un camion, insieme ad altre ragazze, e la portano in una comfort house. È qui che Wang Di scompare e diventa Fujiko: una schiava sessuale.

Sessant’anni dopo, Kevin ascolta le ultime parole di sua nonna sul letto di morte. Unico testimone di quella confessione, il timido tredicenne decide di ricostruire la storia della sua famiglia. La sua strada si incrocia così con quella di Wang Di, diventata ormai anziana, e insieme provano a ridare voce alle tante vittime innocenti della guerra.

Comfort women, le donne dimenticate

“Storia della nostra scomparsa” è il romanzo d’esordio di Jing-Jing Lee. L’autrice, nata e cresciuta a Singapore, racconta un pezzo di storia fondamentale per il suo Paese, prendendo spunto anche da alcune vicende che colpirono direttamente la sua famiglia proprio in quegli anni.

Con la sua scrittura delicata fa immergere nella memoria delle moltissime vittime di guerra, costrette a subire crimini orribili.

In particolare in quella delle tante donne che furono rapite dall’esercito giapponese per essere schiavizzate e trasformate in prostitute.

Per anni l’esistenza delle comfort women è stata addirittura negata, solo grazie alla forza, alla perseveranza e alle confessioni di tante donne, oggi sappiamo la verità. Si stima che le “donne di conforto” furono più di 300 000, ma è difficile conoscere il numero esatto.

Chi tra loro riuscì a sopravvivere, spesso preferì tacere la verità per vergogna, per paura di subire conseguenze, per non disonorare la famiglia.

Soprattutto cinesi e coreane, ma provenienti da tutti i territori invasi e occupati dal Giappone, queste ragazze vivevano recluse e violentante anche decine di volte al giorno. Solo negli anni '90 qualcuna di loro iniziò a farsi avanti con le prime confessioni, anche se per molto tempo i loro aguzzini continuarono a negare.