Da piccolo voleva fare il calciatore “perché in provincia cosa puoi fare”, poi ha optato per la recitazione con ottimi risultati. Prima di essere Salvatore Conte, Marco Palvetti cresciuto a Ponticelli, quartiere nella periferia est di Napoli, è un attore teatrale con un solido background. A Blasting News parla di Unwanted - Ostaggi del mare, serie Sky in onda dal 3 novembre liberamente ispirata a Bilal, il libro di Fabrizio Gatti sul suo viaggio sotto copertura tra i migranti. La serie parla di una nave da crociera (la Orizzonte) che salva ventotto migranti africani e della collisione tra il lusso del mondo occidentale e la disperazione di chi scappa dalla propria terra. Palvetti interpreta Nicola, un carabiniere pragmatico più interessato a “sradicare i problemi” che “a risolverli”.

L’intervista però è anche un modo per parlare degli inizi, dell’incidente che lo ridusse in fin di vita prima del provino per l’accademia Silvio d’Amico e la vita in provincia. E poi le migrazioni, la tragedia umana degli anni venti, strumentalizzata dai politici e vista come una questione da chiudere in fretta e furia senza mai interrogarsi sui perché.

BN: Da un lato i migranti, dall’altro il lusso. Come entrano in collisione due mondi così diversi?

MP: "Io credo che come avviene sempre quando ci sono dei mondi così differenti – differenti perché uno arriva a ignorare la realtà dell’altro, come racconta la serie – quando si ignora la realtà dell’altro e queste realtà si incontrano allora possono esserci scontri e guerre o pace e incontri piacevoli che possono cambiare la vita delle persone e infatti questo incontro tra lusso occidentale e ricerca di un po’ di libertà dei migranti cambierà le vite di queste persone.

La domanda è chi è l’ostaggio di chi, noi siamo ostaggi di noi stessi, delle idee che abbiamo, di ciò che non conosciamo e quando ce lo ritroviamo davanti sta a noi, al nostro coraggio cercare di crescere".

Nicola, il personaggio da lei interpretato, è fatalista. Secondo lui per i migranti non c’è un futuro fatto di riscatto sociale ma solo di delinquenza.

Quale il suo percorso di crescita?

"Si è ostaggi anche di una routine. Lui è un carabiniere, vive la strada tutti i giorni e ne conosce i pericoli, sa in che modo queste persone possono, una volta arrivati qui, prendere una direzione piuttosto che un’altra, lui è molto pragmatico in questo. Pragmatico al punto che pensa solo "abbiamo un problema e bisogna risolverlo". Per lui la soluzione è non far entrare queste persone, non è chiaramente la soluzione al problema ma è il modo più semplice per una persona che appartiene alle forze dell’ordine di ovviare al problema. Per lui è l’unico modo ma avrà una trasformazione, sarà messo in condizione di incontrare quella parte di sé che non potrà fare a meno di smettere di essere ostaggio di credenze legate alla sua routine lavorativa".

Qual è il suo orizzonte?

"Si può sempre crescere ma è un’operazione profonda, fatta di tanta volontà. Volontà di ricerca, di presenza. Per essere presenti nel quotidiano bisogna essere aggiornati, per essere aggiornati bisogna avere la possibilità di accedere a una cultura e per avere una cultura dobbiamo avere la volontà di avvicinare l’altro, lo straniero. Ma non intendo solo l’integrazione con lo straniero, con chi viene da molto lontano, a volte non riusciamo ad integrare le persone che stanno a pochi metri da noi, metri metaforici. C’è bisogno di uno sforzo per avvicinarsi all’altro. Se rimaniamo per sempre nel nostro angolo, angolo che dobbiamo proteggere per paura dell’invasore, non andiamo da nessuna parte".

Chiudersi è disumano...

"Certo, oltretutto ci sono controsensi. Pensate al problema con i visti del Ruanda, pensate ai regolamenti attuati in occidente negli ultimi anni, pensate all’idea di rimandare i migranti indietro, significa rimandarli al loro carnefice, cosa palesemente disumana".

Si è mai sentito l’altro? Lo straniero?

"Sì! Essere omessi da un sistema, non essere riconosciuti da un sistema non è solo relativo al colore della pelle. Non è solo un fatto culturale. Siamo omessi da determinate cose anche all’interno della nostra società, perché magari non apparteniamo a una determinata casta, ceto sociale, una determinata élite. Anche il mondo dello spettacolo è una casta riconosciuta e riconoscibile".

Gli inizi, l’accademia e l’incidente. Cosa ricorda?

"Ho capito cosa sono le sliding doors. Rientravo da un allenamento e sulle strisce una moto mi prende in pieno. Perdo conoscenza e mi risveglio in ospedale. Un volo di 9 metri. Avevo già fatto richiesta per entrare in accademia mesi prima e avevo già scelto i pezzi che avrei portato, tratti dal Gabbiano di Cechov. E avevo scelto pezzi di Konstantìn. Il personaggio in uno di questi pezzi aveva appena provato a spararsi alla testa e aveva una ferita alla testa e la scena che avevo scelto era quella in cui cambiava la sua fasciatura e questa cosa mi ha molto segnato perché vedi la vita come segue delle strade. L’Universo a volte sembra darti una mano.

Volendo vedere la cosa in un modo paradossale. L’Universo parla una lingua particolare, ma se noi non parliamo la lingua umana, la lingua degli umani, come facciamo a capire la lingua dell’Universo".

Un bel periodo?

"Uno dei periodi più belli dell’accademia perché poi tutto si è trasformato da lì. Con questi mezzi differenti di comunicazione e i social, anche un giovane che si approccia al lavoro dell’attore non fa più un iter naturale. Ormai cerca di diventare prima famoso e poi dopo fa un corso di recitazione perché lo seguono 40 persone. Questa cosa è grave, abbiamo sostituito il principio ‘qualità uguale quantità’ con ‘quantità uguale qualità’".

Da bambino voleva fare il calciatore?

"Sì, perché in provincia cosa si può fare?"

Quale provincia?

"Io sono originario di Pollena Trocchia ma cresciuto a Ponticelli, periferia est di Napoli, e sono luoghi dimenticati dove non c’è nulla, nessuna risorsa se non quella di ritrovarsi impelagati in questioni complicate. La criminalità è alta e lo vedi nelle strade. Per tornare al punto di vista di Nicola, quale sarebbe la sua soluzione? Quella di sradicare il problema senza affrontarlo, ma è una questione di semplicità più che pregiudizio è questione di velocità. Nicola non è colpevole in quanto tale ma dal suo punto di vista bisogna risolvere i problemi nel modo più veloce possibile. Allora si nota la mancanza di volontà di andare a monte delle questioni. Semplicemente vogliamo sradicare il problema senza chiederci come possiamo realmente risolverlo".

Quali i problemi di quella provincia invece?

“Il problema è l’ignoranza, purtroppo colpa anche di alcuni prodotti che chiamiamo arte ma che sono solo prodotti commerciali legati alla disinformazione. Poi credo che la serialità abbia creato una sorta di disagio cognitivo, rallentando tutti i processi. Da una parte la velocità, dall’altro la percezione che deve essere rallentato perché devi guardare magari una serie improbabile perché diventa trendy. Rimani appiccicato perché alla fine devi essere un numero, siamo tutti numeri e questo è triste”.

Si è mai sentito inchiodato a Salvatore Conte?

“No. Mai. Ho un background teatrale che inizia molti anni fa. Un background che mi ha insegnato ad indossare un personaggio e riporlo una volta finito perché il teatro è un gioco serio e non sono mai stato bloccato.

Quando è uscita Gomorra si sentiva nell’aria che potesse essere un fenomeno culturale ma a me non interessava. Volevo fare bene il mio lavoro. Non ho mai spinto sull’essere fenomeno, quindi non avevo alcun bisogno e nessuna necessità di essere fenomeno prima di attore e ancora oggi è così e forse lo sarà per sempre. Essere inchiodato significava arrendersi al fatto che quella fosse l’unica risorsa umana e lavorativa che avevo, per sempre”.

Colleghi inchiodati ai loro personaggi?

“Inchiodati a un’idea attoriale. L’attore deve essere disposto al cambiamento. Un altro problema è che non siamo abituati alla qualità. L’Italia pensa ancora di essere il centro del mondo, abbiamo smesso di esserlo dopo i romani.

La nostra musica non l’ascolta nessuno, i nostri film non li compra nessuno e anche quando vanno agli Oscar di cosa parlano? Di cliché, di cose così basiche rispetto ad altre platee, altre culture. Cose che vengono fatte apposta perché è il momento giusto. Sappiamo tutti che è così ma allora perché insistere e alimentare questo sistema per poi lamentarci”.

Perché siamo bloccati nel sistema?

“Il problema del nostro Paese è l’autocelebrazione. Ripeto: pensiamo ancora di essere al centro del mondo, di fare cose in un modo meraviglioso ma non è così, creando un’estrema chiusura nei confronti di quello che viene da fuori. Ci chiudiamo dicendo che tutto ciò che facciamo è meglio. Questo rafforza il sistema interno malato e non si dà la possibilità a ciò che viene da fuori di entrare”.

Così torniamo all’immigrazione

“Sì. Aprirsi è uno step che altri paesi hanno fatto e che a noi manca. Porta dei rischi ma serve, è importante. L’integrazione comincia molto prima. Non significa insegnare agli altri a parlare la tua lingua. L’integrazione significa prima comprendere tu chi sei”.

Integrazione per chi viene da fuori e per chi è già dentro, torniamo alla provincia o alla periferia quindi, torniamo al riscatto. Il suo Salvatore Conte cosa è stato per i ragazzi di Ponticelli?

“Una possibilità. La possibilità di venire fuori da una situazione in modo differente. Oggi è molto difficile, c’è molta confusione. Nella confusione di social e mass media per un ragazzo è complicato capire quale può essere l’altra possibilità.

Perché abbiamo portato questi personaggi, questi fenomeni all’estremo. Abbiamo dato loro potere politico. Purtroppo la visibilità viene vista come l’unico modo per raggiungere un livello molto alto in poco tempo, ma non è così. Serve studio. Ad oggi però va solo il red carpet. Per gli attori se non fai il red carpet non sei nessuno. Ai festival incontri i giornalisti che ti parlano e poi fanno le copertine su personaggi che non dovevano nemmeno essere lì”.

Però attori e influencer camminano sugli stessi red carpet

“Significa che dobbiamo differenziare le cose. Dire che sono dei festival che seguono i fenomeni ma col cinema non hanno niente a che fare”.

Come fare per cambiare?

“Può cambiare solo con voi giornalisti e con la nostra onestà.

Se tutti i fotografi e i giornalisti smettessero di andare ai festival dove c’è solo questa roba, allora si risolverebbe la questione. Eppure giornalisti e fotografi sono tutti lì a fare domande inutili a persone che non hanno nulla da dire. Se oggi ci troviamo gli influencer a fare i film e non gli attori la colpa è anche vostra che gli date spazio. Non devo dire io che la logica del mercato sta distruggendo l’arte, è banale, di una retorica imbarazzante”.