Ha scatenato un putiferio, dando il via ad uno scontro tra lettere, numeri, formule matematiche e versi poetici. Il derby culturale sulla formazione universitaria è nato in un pugno di caratteri scritto dal vice direttore de "Il Fatto Quotidiano" Stefano Feltri, in piena calura estiva. "Il conto salato degli studi umanistici", recitava il titolo dell'articolo, nelquale dall'analisi dei dati di uno studio inglesesi concludeva che laurearsi in filosofia, lettere e storia dell'arte è un po' come laurearsi in disoccupazione o frustrazione. Mentre ingegneria, matematica, fisica e finanza sono in grado di garantire una più alta probabilità di impiego, meglio retribuito, in linea con gli studi fatti e relativo ateneo di laurea.
I risultati della ricerca
A quantificare il valore delle lauree è stato il CEPS, Center European Police Statics, incrociando una serie di parametri che tengono conto tra l'altro della difficoltà dei corsi e del tipo di occupazione e retribuzione alla quale si approda dopo l'università. Le cifre dello studio ci dicono più o meno questo: dato cento come valore medio, a cinque anni dalla laurea un diploma in legge, economia o scienze politiche tocca quota 273, ben 398 quello in medicina, solo 55 fisica o informatica. Di segno decisamente negativo con -265 appaiono invece le lauree in lettere o storia. Come si vede dunque, la spaccaturatra i due orientamenti c'è, anche se non nettissima, ed è qui che si incuneano le critiche secondo le quali una società non cresce unicamente in base alla sua produzione, ma progredisce anche grazie al dibattito civile e al pensiero critico, ai quali si viene educati proprio dalla formazione umanistica.
Le ragionevoli questioni
I nodi da sciogliere quindi restano egli interrogativi nascono spontanei. E' giusto incitare i ragazzi a non intraprendere gli studi umanistici a vantaggio di quelli scientifici, immolando le singole vocazioni sull'altare del mercato del lavoro? Bisogna seguire la passione o seguire le offerte di lavoroche sembrano più vantaggiose?