Non è infrequente che un lavoratore venga licenziato per giustificato motivo oggettivo dall’azienda, specialmente in tempi di crisi economica come quelli di oggi, per ragioni di carattere tecniche, produttive o organizzativo. In tali circostanze, tuttavia, la posizione del lavoratore non è priva di una tutela, poichè in alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro ha sempre l’obbligo di repechage ovvero la possibilità di impiegare il lavoratore in un altro modo o settore, oppure in ultima analisi di demansionarlo.

L’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori non viola l’articolo 2103 c.c. sempre che sussista il consenso del lavoratore. La giurisprudenza, sul punto è infatti sempre stata concorde a ritenere prevalenti le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro rispetto a quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore. Fino a questo momento quindi, sotto il profilo dell’onere probatorio, la Cassazione ha sempre ritenuto che mentre sul lavoratore che impugna il licenziamento perché illegittimo ricade sempre una collaborazione nell’accertamento di unrepechage, il datore di lavoro invece ha l’onere di provare, attraverso fatti positivi, l’impossibilità di utilizzare altri posti di lavoro nei quali ricollocare il dipendente, adibendolo altresi’ a mansioni diverse.

Questo fino ad oggi perché una recente sentenza della Suprema Corte, la n. 4509 del 08.03.2016 sembra aver inasprito gli oneri probatori ricadenti sul datore dilavoro

Presupposti dell’illegittimità del licenziamento

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione ha riguardato un lavoratore che dopo esser stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, aveva appreso che la società aveva assunto ulteriore personale a tempo indeterminato e determinato.

Egli quindi ha deciso di presentare ricorso in Tribunale per carenza di giustificato motivo oggettivo, chiedendo quindi di essere reintegrato sul posto di lavoro. Dopo che il Tribunale gli ha dato ragione, tale decisione è stata però riformata in Corte d’Appello sulla base dell’accertamento dell’effettiva soppressione del posto di lavoro in dipendenza della grave situazione economica.

I giudici dell’Appello in breve hanno evidenziato che sebbene ci fossero stati delle nuove assunzioni, per il lavoratore licenziato non sussistevano posizioni lavorative equivalenti rispetto ha quello per cui era stato assunto e nè egli aveva manifestato la volontà di stipulare un patto di demansionamento. Il dipendente ha deciso quindi di ricorrere in Corte di Cassazione sostenendo che l’azienda non aveva fornito la prova sulla possibilità di impiegarlo in altri settori dell'attività produttiva, anche con mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte e che quindi l’obbligo di repechage non era stato rispettato

Obbligo di repechage e onore probatorio

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del lavoratore, ha ribadito il principio di diritto secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo solo se il lavoratore non può essere assegnato ad altre attività riconducibili alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti.

Tale principio prima valeva solo per la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore (Cass. S.U. n.7755/99). Secondo gli Ermellini inoltre il datore di lavoro deve prospettare, in tali casi, al lavoratore, sempre compatibilmente con le sue competenze, la possibilità di svolgere mansioni inferiori. I giudici di legittimità hanno quindi enucleato un nuovo principio di diritto che comporta un’ulteriore incombenza sul profilo dell’onere probatorio, da parte del datore. Egli dovrà provare non solo la mancanza di una posizione dì lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver offerto al dipendente ‘un patto di demansionamento’. La Suprema Corte quindi proprio perché i giudici dell’appello non hanno svolto un accertamento sul punto ha rinviato la sentenza anche per le spese di giudizio a quest’ultimi