L'antropologo Claude Levi-Strauss scrisse che i popoli perdono più facilmente la lingua madre delle abitudini alimentari, portando ad esempio gli italiani emigrati in America. I nostri nonni, infatti, si adattarono in fretta all'inglese, ma mentre si "americanizzavano" continuarono a mangiare spaghetti. E come loro, i loro figli. La lezione che ce ne viene? Molto semplice: il rapporto che ognuno di noi intrattiene col cibo è la dimensione più sottile e basica della sua relazione con la terra e con la storia, con lo spazio e con il tempo.
Con ciò che, banalmente, chiamiamo "Mondo".
Ed è su questo piano molto affine alla sfera del "sacro", quando non rientrante a pieno titolo in essa, che il consiglio comunale della città danese di Randers ha sferrato la nuova offensiva contro i migranti inaugurando una vera e propria battaglia delle polpette. Combattuta, ça va sans dire, in nome della propria identità culturale. I fatti, in breve, come riportati dal Corriere della Sera, che ne ha dato notizia: il parlamentino di questa cittadina dalla fama di anti-conformista, nota in passato per i traffici di droga e il libero consumo di alcoolici, ha reso obbligatoria nelle scuole la carne di maiale.
E' proprio così: ogni bambino danese e non, secondo la weltanschauung di tal Frank Norgard, consigliere comunale del DF, partito di estrema destra, deve mangiare carne di maiale per limitare l'affluenza e pure l'influenza dei migranti, preservando per questa via l'identità nazionale. La battaglia delle polpette, dichiarata in nome di un presunto ideale di purezza etnica applicato al cibo, non ha trovato particolare ostilità a Copenaghen, dove il ministro dell'integrazione (sic!) Inger Stoiberg si è detto favorevole al fatto che i nuovi arrivati rispettino i valori che definiscono l'identità danese.
Come se mangiare maiale fosse, nientepopodimeno, che un valore; come se la tolleranza richiesta allo straniero comportasse l'obbligo di non astenersi dal consumare carne di maiale, un obbligo non solo imprescrittibile ma persino lesivo della libertà personale di cui pure la Danimarca si vuole paladina; come se evitare di somministrare carne alle mense non fosse anche un atto di responsabilità verso la salute dei minori; come se il rispetto dell'ospite prescritto dalla Xenia, il sistema di prescrizioni che regolavano l'ospitalità nel'antica Grecia, plurinvocata culla di quella civiltà occidentale che si vuole nostra, non muovesse proprio dall'atto di offrire cibo e bevande che l'ospite stesso potesse gradire.
Come se colpire i musulmani in ciò che più di ogni altro precetto concorre a definire la loro sensibilità religiosa insieme al digiuno nel mese del Ramadan, anch'esso non a caso obbligo alimentare, favorisse l'integrazione e la pace sociale.
Spostare la questione dei profughi sul piano del cibo significa parlare a sproposito di identità. Significa voler colpire l'Altro, non nel corpo ma in una componente ancora più sottile e decisiva della persona umana: quella memoria olfattiva e gustativa che concorre a definire ciò che da millenni tutti noi, danesi inclusi, chiamiamo anima.