L'euro non ha mai goduto di grande popolarità in Italia. Dalla sua entrata in vigore nel 1° gennaio 2002 gli italiani hanno subito notato, per dirla con Sgarbi, che un gelato anziché 2000 lire costava ora 2 euro, cioè più del doppio dato che il cambio euro/lira fu fissato a 1936,27. Un cambio sfavorevole, hanno detto e continuano a dire alcuni, ma che in realtà rifletteva l'effettivo valore della nostra moneta rispetto alle altre valute europee. Poi nel 2007-2008 è arrivata la crisi finanziaria americana dei mutui subprime e la conseguente recessione mondiale.
Da allora l'euro è diventato il nemico numero uno. Alle voci tradizionalmente critiche nei confronti della moneta unica come Salvini e Grillo, se ne sono via via unite altre, come l'ex-PD Fassina.
La scelta dell'Italia
Con l'Euro l'Italia, così come gli altri paesi dell'Eurozona, ha abdicato alla propria politica monetaria. Non può quindi più rispondere a shock esterni attuando una politica espansiva che, iniettando più denaro nell'economia, favorisca investimenti, produzione e consumi nonché aiuti le esportazioni attraverso la conseguente svalutazione della moneta.
Gli economisti concordano che l'Italia beneficerebbe da un Euro più debole. Ma concordano anche su un altro punto: l'euro ha solo amplificato una crisi strutturale dell'economia italiana.
Per dimostrare questa tesi l'economista e accademico italiano Francesco Giavazzi invita a prendere la Francia, simile all'Italia per economia e struttura sociale, come termine di paragone. La Francia ha anch'essa adottato l'Euro ed è stata anch'essa colpita dalla recessione mondiale. Ebbene, dal 1995 al 2015 il reddito pro capite francese in termini reali è cresciuto del 20,8%, da 25.780 euro a 31.130.
Il reddito pro capite italiano in termini reali invece è cresciuto solo di un misero 0,9%, da 24.780 euro a 25.030. La mancata crescita italiana, continuano gli economisti, riflette una brusca interruzione della crescita della produttività iniziata proprio a metà anni novanta, prima dell'introduzione dell'euro ma in concomitanza con lo stop di Banca d'Italia alla svalutazione competitiva della lira, funzionale al miglioramento del rapporto PIL/debito pubblico.
Sul perché di questa produttività stagnante gli economisti invece si dividono
Alcuni pongono l'accento su come inefficienza della burocrazia, lentezza della giustizia civile e eccessiva tassazione impediscano alle imprese di crescere e svilupparsi. Altri, sostengono come le imprese italiane, anche a causa della loro caratteristica dimensione medio-piccola, siano state meno capaci delle concorrenti francesi e tedesche di sfruttare i vantaggi derivanti dall'adozione delle nuove tecnologie informatiche. Altri ancora, infine, notano come le riforme del mercato del lavoro, causando una maggiore precarizzazione, abbiano tolto incentivo alle aziende ad investire nella formazione del personale, presupposto fondamentale per accrescere la produttività.
L'Euro ha quindi una responsabilità limitata sulla grave crisi economica del nostro paese. Eppure, rappresenta un ottimo alibi per la classe politica che può così distogliere l'attenzione da venti anni di riforme non fatte o sbagliate. Tornare alla lira senza affrontare i problemi sopracitati significherebbe ancora svalutazione competitiva, insostenibile nel medio-lungo periodo soprattutto se affiancata da una spesa pubblica fuori controllo e la cui unica finalità è tenere in piedi eterogenei governi di coalizione.