Romosozumab è un anticorpo monoclonale anti-sclerostina, una proteina che inibisce l’attività delle cellule che producono nuovo tessuto osseo (osteoblasti). Diversi studi clinici hanno dimostrato che Romosozumab è in grado di aumentare la densità ossea a livello della colonna vertebrale, dell’anca e del collo del femore, tutti punti che diventano più fragili in un soggetto con osteoporosi. L’attività osteoblastica è stata confermata anche dal monitoraggio di marcatori specifici della formazione ossea che aumentano in maniera rapida e transitoria dopo la somministrazione dell’anticorpo.

Completato lo studio FRAME, Amgen e UCB Pharma questi giorni hanno presentato all’FDA la domanda per la registrazione di Romosozumab.

Una nuova arma farmacologica per combattere l’osteoporosi

Scoperto da Celltech, una società poi acquisita da Ucb, che ne ha curato lo sviluppo insieme ad Amgen, Romosozumab blocca selettivamente la sclerostina, una glicoproteina che ha la funzione di inibire l’attività osteoblastica indotta dagli osteociti. Non è il primo anticorpo usato nell’osteoporosi. Nel 2010, l’FDA aveva approvato Denosumab (Prolia), sempre dell’Amgen, che agisce con un meccanismo differente: blocca RANKL, una proteina che, legandosi ai recettori RANK, attiva la distruzione del tessuto osseo.

Usato anche in campo oncologico, nel contrastare le metastasi ossee (Xgeva).

Com’è noto, nei pazienti che soffrono di osteoporosi le ossa hanno una ridotta massa ossea e una struttura più fragile, anche dal punto di vista della micro architettura del tessuto osseo. Da qui il rischio di fratture. I farmaci finora impiegati contro l’osteoporosi, pur contrastando il riassorbimento osseo e la progressione della malattia, ed efficaci nell’aumentare la densità minerale, non sono in grado di ripristinare la struttura (microstruttura) ossea.

Romosozumab, bloccando la sclerostina favorisce, in modo assolutamente naturale, la formazione di nuovo tessuto osseo con una microstruttura regolare. Il nuovo anticorpo esercita quindi un’azione combinata: da una parte riduce il riassorbimento osseo e dall’altra ne stimola la formazione di nuovo, e ne aumenta la densità minerale.

E’ sufficiente una sola somministrazione al mese (210 mg), per via sottocutanea.

Dopo aver verificato la sua efficacia in un ampio studio clinico multicentrico di fase 3, chiamato FRAME (FRActure study in postemenopausal woMen with ostEoporosis), condotto su 7mila donne in età post-menopausa, contro un gruppo placebo, Amgen e Ucb hanno chiesto all’FDA l’autorizzazione alla commercializzazione del nuovo farmaco.

Il dinamico meccanismo della formazione dell’osso

Contrariamente a quanto la sua solida consistenza, forza e durezza, lascerebbero pensare, il nostro scheletro è un tessuto che si rinnova continuamente. Lo dimostra il fatto che dopo una frattura sono sufficienti poche settimane per riparare il danno e tornare alla condizione originale.

A controllare tutto questo ci sono vari meccanismi che orchestrano un delicato equilibrio tra formazione di nuovo osso (osteoblasti, cellule che producono nuova matrice ossea) e distruzione di osso già formato (osteoclasti, cellule che digeriscono la matrice dell’osso). La matrice appena formata viene quindi mineralizzata, per dare all’osso quella consistenza di durezza e resistenza necessaria per le funzioni di supporto dello scheletro.

A questo equilibrio partecipa anche la sclerostina, una glicoproteina che favorisce l’attività litica dell’osso bloccando l’attività degli osteoblasti. Attività che viene bloccata da Romosozumab. Questo nuovo farmaco dovrebbe arrivare sul mercato entro il 2017.

Gli analisti hanno previsto che diventi uno dei blockbuster (farmaci con fatturato annuo superiore al miliardo di dollari) entro 5 anni (2021), come lo è già ora Denosumab. Fiutato l’affare, altre aziende stanno investendo in questo campo, cercando di sviluppare delle piccole molecole anti-sclerostina.