I ricercatori dell'Università americana Northwestern, guidati dal dottor Dimitri Krainc, hanno scoperto una cascata tossica che porta alla degenerazione neuronale nei pazienti con la malattia di parkinson, e hanno scoperto come bloccarla con un antiossidante.

L'autore dello studio è il dottor Dimitri Krainc, professore e presidente di neurologia presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine. I ricercatori hanno trovato una sostanza che frena l'avanzata di questa malattia, dando nuove speranze ai malati. Infatti è stato dimostrato che un intervento, mediante un antiossidante, effettuato nelle prime fasi del morbo, può rompere il ciclo degenerativo e migliorare la funzione dei neuroni.

Questa patologia, conosciuta anche come morbo di Parkinson, è una malattia neurodegenerativa, che avviene quando si verifica la morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina, presenti nella regione del mesencefalo, chiamata "substantia nigra". In base agli ultimi dati disponibili, essa affligge oltre 240mila italiani, è più comune negli anziani e solitamente si manifesta dopo i 50 anni. I primi sintomi sono i tremori e la difficoltà a camminare, ma successivamente potrebbero presentarsi anche problemi comportamentali.

Il fattore tempo è sempre il più importante

Il team, analizzando i neuroni umani di pazienti affetti da Parkinson, ha scoperto un accumulo di dopamina ossidata, che ha portato ad un abbassamento dell'attività della glucosocerebrosidasi lisosomiale, che a sua volta ha un ruolo determinante nella degenerazione dei neuroni.

L’aumento della dopamina ossidata deteriora i mitocondri dei neuroni, i quali accrescono i livelli ossidati della dopamina, avviando così un circolo vizioso.

Il dottor Krainc ha affermato che, durante gli esperimenti, il metodo migliore è stato quella di trattare i neuroni, all'inizio della malattia, con antiossidanti specifici in grado di limitare lo stress ossidativo mitocondriale e la dopamina ossidata.

La malattia di Parkinson non dà sintomi iniziali, ma occorre evidenziare i soggetti che potrebbero esserne affetti per intervenire precocemente, sviluppando degli specifici test genetici.

La ricerca è iniziata sei anni fa nel laboratorio di Krainc presso il Massachusetts General Hospital e presso la Harvard Medical School, concludendosi a Feinberg. Lo studio è stato pubblicato dalla rivista "Science".