I magistrati della Suprema Corte continuano a discutere su controversie che ruotano intono alle fatture e lo fanno dopo una recente sentenza della CTP di Ancona che ha fatto scalpore. La suddetta sentenza n. 1279/3/2016 con un ragionamento poco condivisibile, di fatto impedisce ad ogni libero professionista la possibilità di scegliere fra l’onerosità o meno della propria prestazione.La ratio della decisione dei giudici tributari, che peraltro trova d’accordo anche l'Agenzia delle Entrate, è quella di far pagare le tasse anche al professionista che decide di svolgere un lavoro gratis.
Nello specifico tale professionista sarebbe comunque tenuto ad emettere fattura sia pure di importo modesto o pari a zero, proprio perché si tratta di un favore ad amici e parenti.
La fattura è obbligatoria se il professionista lavora gratis?
Ed in questa direzione l’Agenzia delle Entrate, in presenza di una contabilità formalmente regolare del professionista, ha proceduto all’accertamento presuntivo, contestandogli quelle prestazioni professionali elargite gratuitamente a parenti e amici, per le quali ha rinunciato ad incassare la parcella. La motivazione sarebbe da rintracciarsi nel fatto che l’omessa fatturazione di servizi prestati costituisce una condotta antieconomica. Nel mirino dell’Agenzia fiscale sono finiti soprattutto i commercialisti: l’Ufficio fiscale effettua infatti un confronto tra i clienti menzionati nelle fatture emesse e le relative dichiarazioni dei redditi.
Una volta che dal confronto risultano dichiarazioni non fatturate, l’Agenzia procede alla ricostruzione dei compensi non fatturati e non dichiarati.
Di parere contrario è invece la Suprema Corte, che venendo incontro al contribuente, ha sempre ritenuto che le prestazioni gratuite non sono contestabili perché non violano nessuna norma tributaria.
E ciò specialmente laddove il professionista produce in giudizio dei ricavi perfettamente conformi a quelli previsti dallo studio di settore e dunque congrui e coerenti.
La fattura imprecisa e generica: le conseguenze
A conclusioni diametralmente opposte è invece giunta la Cassazione nel caso in cui venga emessa una fattura, troppo generica però.
In tali casi la Suprema Corte, con sentenza n. 9846/2016 ha ritenuto che l’Agenzia fiscale può contestare l’effettività delle operazioni presenti in fatture irregolari, ritenendo dunque impossibile dedurre i relativi costi. Ne conseguono una serie di effetti:
- è possibile applicare la sanzione per non conformità della fattura al modello legale
- viene disconosciuto il costo portato in detrazione dal destinatario della fattura in virtù della rivalsa dal committente
- nei casi più gravi, la fattura può essere considerata relativa a operazioni inesistenti
Il caso da cui trae origine la sentenza riguarda un ricorso che aveva ad oggetto 2 avvisi di accertamento, che riprendevano a tassazione dei costi sostenuti per alcune provvigioni.
In entrambi in gradi di giudizio, i magistrati di merito hanno ritenuto che la generica formulazione delle fatture, non consentiva l’individuazione delle prestazioni professionali rese. Inoltre il contribuente non aveva neanche prodotto gli estratti conto in base al quale era stato effettuato il calcolo delle provvigioni. La Cassazione ha abbracciato tale verdetto ritenendo che la deducibilità dei costi è strettamente legata al presupposto che la fattura debba essere redatta in conformità ai requisiti di contenuto e di forma, quale documento 'idoneo a rappresentare i costi dell’impresa'.
Al contrario se la fattura non indica la natura, qualità e quantità dei servizi e dei beni che formano oggetto dell’operazione, l’Agenzia fiscale può contestare non solo l’effettività delle operazioni indicate nelle fatture irregolari, ma anche ritenere indeducibili i relativi costi.
E questo sia nell’ottica di un'oggettiva finalità di conoscibilità e trasparenza, sia per permettere all’Agenzia l’espletamento di attività di verifica e controllo, per identificare l’oggetto della prestazione.