Sempre più spesso molti professionisti, tra cui avvocati, commercialisti ma anche architetti e geometri, preferiscono ridurre le spese adibendo una parte della propria abitazione a studio professionale. Su questo argomento è intervenuta recentemente la Corte Suprema di Cassazione e ieri 4 dicembre 2019 è stata depositata in Cancelleria l'Ordinanza n° 31621/2019 della Quinta Sezione Civile che, in estrema sintesi, ha stabilito che il professionista che mantiene due studi, uno presso la propria residenza e uno a un altro indirizzo, non può dedurre le spese sostenute per quello casalingo dalla propria dichiarazione dei redditi.

I fatti che hanno portato al giudizio della Corte

Il Supremo Collegio si è trovato a giudicare il ricorso presentato da un professionista contro la decisione della Commissione Tributaria Regionale del Lazio che aveva confermato la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Roma, la quale aveva dato ragione all'Agenzia delle Entrate riconoscendo la piena legittimità dell'avviso di accertamento notificato al contribuente per la rettifica del reddito imponibile ai fini Irpef del 2009. Secondo l'amministrazione finanziaria, infatti, il professionista aveva inserito nella dichiarazione dei redditi dei costi in deduzione relativamente alla propria abitazione utilizzata anche come studio professionale che l'amministrazione finanziaria aveva, invece, ritenuto non documentati e non inerenti.

Contro tale decisione il contribuente professionista ha presentato ricorso per Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

In pratica il professionista contribuente ha basato il proprio ricorso in Cassazione sulla violazione o falsa applicazione da una parte, dell'articolo 42 del DPR 600/73 e dall'altra dalla violazione o falsa applicazione da parte della C.T.R.

del Lazio dell'articolo 54 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Il primo articolo citato disciplina l'avviso di accertamento, mentre il secondo articolo citato disciplina la "Determinazione del reddito da lavoro autonomo". Comunque, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di dover rigettare il ricorso del professionista dando ragione all'Agenzia delle Entrate.

Il Supremo Collegio richiamando il disposto letterale dell'articolo 42 del DPR 600/73 specifica che quest'ultimo è pienamente valido quando viene adeguatamente motivato dall'amministrazione finanziaria. La necessità di un'adeguata motivazione, poi, continua la Corte, è stata ribadita anche nell'articolo 7 della Legge 27 luglio 2000 n° 212, cosiddetto Statuto del Contribuente. Tale richiamo, continua il giudice di legittimità, serve al duplice scopo di garantire il diritto di difesa del contribuente e, nello stesso tempo, limitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'amministrazione finanziaria nella successiva fase contenziosa.

La Cassazione aggiunge che dalla motivazione dell'avviso di accertamento deve emergere una fedele e chiara ricostruzione di tutti gli elementi costitutivi dell'obbligazione tributaria così da consentire al contribuente interessato un'adeguata difesa in giudizio.

Se tali obblighi, continua la Corte, sono stati pienamente assolti, non può darsi luogo ad un vizio di motivazione o tanto meno sostenere che la motivazione stessa sia stata omessa. Nel caso specifico, non vi è stata nessuna negligenza da parte dell'amministrazione finanziaria per quanto riguarda la motivazione dell'avviso di accertamento. In materia tributaria, poi, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte vige il principio che l'amministrazione finanziaria è obbligata a provare se esistono elementi rivelatori di un maggiore reddito imponibile, mentre spetta al contribuente l'onere di provare l'esistenza di fatti che danno luogo a oneri o costi deducibili. Non solo, ma il contribuente è tenuto a provare anche l'eventuale inerenza dei costi all'attività professionale svolta.

Da ciò deriva, secondo la Cassazione, che in prima battuta per applicare correttamente il disposto dell'articolo 2697 del Codice Civile, il giudice di merito deve innanzitutto determinare quale sia la parte dovuta per legge a fornire la prova delle maggiori entrate o dei minori costi da dedurre: nel caso specifico, era onere del contribuente dimostrare l'inerenza dei costi da portare in deduzione, non dell'amministrazione tributaria. Cosa che nel caso specifico non è avvenuta.

Per quanto riguarda, invece, la deduzione delle spese relative all'abitazione utilizzata come studio professionale la Corte di Cassazione richiama quanto dettato dall'articolo 54, comma 3, secondo periodo, del Tuir. Tale comma stabilisce che le spese relative agli immobili utilizzati promiscuamente, a condizione che il contribuente non disponga nel medesimo comune di altro immobile adibito esclusivamente all'esercizio dell'arte o della professione, è deducibile una somma pari al 50% della rendita ovvero, in caso di immobili acquisiti mediante locazione, anche finanziaria, un importo pari al 50% del relativo canone.

Nel caso specifico il professionista aveva a disposizione un altro locale utilizzato esclusivamente come studio professionale nello stesso Comune. A questo riguardo non rilevava in alcun modo che una parte di questo secondo immobile fosse locato a terzi professionisti allo scopo di essere utilizzato da questi ultimi come studio. La deduzione del 50% sarebbe stata fruibile esclusivamente nel caso in cui il professionista avesse avuto a disposizione solo la propria abitazione come studio. Il termine "esclusivamente" utilizzato dalla norma citata va posto in contrapposizione logica, chiarisce la Corte, con l'avverbio "promiscuamente" della stessa norma. Di conseguenza, il ricorso del contribuente è stato rigettato.