Quando parliamo di acceleratori di particelle il nostro pensiero corre subito al cern di Ginevra, dove, tra la Svizzera e la Francia, ad una profondità tra i 50 e i 100 metri, corre il Large Hadron Collider (LHC), l’anello di 27 chilometri in cui vengono fatte collidere particelle subnucleari al fine di studiare la materia elementare.
La chimica dei pigmenti
In realtà, nel mondo esistono circa 30.000 acceleratori, 10.000 dei quali negli ospedali che vengono utilizzati per curare i tumori colpendo selettivamente le cellule cancerogene. Ma vi sono anche acceleratori utilizzati per scopi insospettabili.
Al Louvre di Parigi si utilizza l’AGLAE (Accélérateur Grand Louvre d'analyse élémentaire) un acceleratore impiegato per analizzare e studiare opere e attribuirne paternità, periodo e caratteristiche artistiche. Anche in Italia vi sono strumenti analoghi, come il LABEC (Laboratorio Beni Culturali) di Firenze, il CIRCE a Caserta, il CEDAD a Lecce che permettono di identificare con estrema precisione la caratteristica del pigmento utilizzato senza danneggiare l’opera. Il principio di funzionamento è semplice: le superfici più esterne dell’opera da analizzare vengono bombardate con protoni o, nel caso di acceleratori portatili, particelle alfa a bassa energia. Queste particelle colpiscono gli elettroni degli atomi situati sugli strati più superficiali, scalzando quelli più vicini al nucleo i quali lasciano dei “vuoti” negli orbitali che vengono immediatamente occupati dagli elettroni più esterni.
Lo spostamento comporta emissione di energia sotto forma di radiazioni che possono essere raggi X (rilevati con la tecnica PIXE, Proton Induced X Emission) o raggi gamma (rilevati con la tecnica PIGE, Proton Induced X Emission). La quantità di energia emessa dagli elettroni per passare da un orbitale all’altro è caratteristica di ogni singolo elemento ed in questo modo è possibile risalire alla composizione del pigmento.
Dato che i colori venivano prodotti a mano dai singoli pittori secondo tecniche proprie e, spesso, segrete, è oggi possibile, in base alle caratteristiche chimiche, risalire non solo al periodo in cui il quadro è stato dipinto, ma anche all’artista che lo ha prodotto e alla “ricetta” del pigmento.
Uno studio che non danneggia le opere
I vantaggi nell’utilizzare gli acceleratori di particelle sono notevoli: la superficie del materiale è colpita da fasci di mezzo millimetro di diametro e un’intensità pari a una decina di pA e quindi l’opera non viene minimante danneggiata.
Da qualche anno, inoltre, è possibile analizzare anche gli strati più interni delle opere variando l’energia dei fasci consentendo di determinare la qualità e la quantità di materiale utilizzato durante le diverse fasi di preparazione e allestimento del singolo quadro. In questo caso, però, la ridotta superficie su cui si va ad operare può falsificare, o rendere meno conclusivo il risultato stratigrafico dato che lo spessore dei singoli strati può variare notevolmente nelle diverse aree dello stesso dipinto.
Galileo e gli inchiostri
Un uso particolarmente importante nel campo della Fisica degli acceleratori di particelle si è avuto verso la fine degli anni Novanta, quando Wallace Hopper e Pier Andrea Mandò ebbero l’idea di utilizzare la tecnica PIXE anche sugli inchiostri. Così come per i colori della tavolozza dell’artista, anche gli inchiostri nel XVII secolo erano prodotti manualmente. Analizzando, dunque, le proprietà chimiche degli scritti di Galileo, è stato possibile, per la prima volta, riordinare cronologicamente tutta la letteratura scientifica dello studioso pisano e seguire l’evoluzione del suo pensiero. Questa ricerca è valsa a Mandò il Premio IBA Europhysics nel 2009 per “aver rivelato la cronologia di alcuni appunti privi di data di Galileo contribuendo a dare importanti informazioni sullo sviluppo delle idee fondamentali del fisico”.