È andata. La prima puntata è finita e ti resta il magone addosso almeno finché non riesci, a fatica, ad addormentarti. E sì, perché con “Gazebo” finisce sempre così. Ci sono serate in cui ridi ma è sempre un riso dal retrogusto amaro. E poi ci sono serate come quella del 27 aettembre, in cui si parte ridendo e si finisce senza parole, a fissare lo schermo senza sapere bene cosa dire di fronte alle immagini trasmesse.
Una quarta stagione che non stanca, senza tradire le sue origini
Il rischio, quando un format arriva alla sua quarta stagione, è quello di stancare, perdere la freschezza degli esordi, non essere più una novità.
Soprattutto il rischio è quello di non dare un valore aggiunto alla visione, di omologarsi a tanti altri programmi che passano per la Televisione e allora perché fare la fatica di restare in piedi fino all’una di notte, di domenica sera, poi, quando il mattino dopo devi alzarti per andare a lavorare/all’università?
Fortunatamente “Gazebo” non incorre in questo problema. Non con un’apertura di stagione simile, per lo meno. Si parte con la social top ten e la lente d’ingrandimento si posa subito su tutti gli svarioni estivi di politici e non più o meno famosi che ci siamo persi, dopo le cinque prime serate di chiusura del programma. Sembra buttarla subito sul ridere, Diego Bianchi in arte “Zoro”, ed è proprio quando lo spettatore tiene la guardia abbassata che parte il colpo a tradimento.
Non è una stilettata improvvisa, ma un sentimento di disagio che ti assale lentamente e cresce mano a mano che le immagini del reportage dal Roszke, sul confine ungherese, si susseguono.
Diari da #RomaRoszke
Ma andiamo con ordine. Quella di ieri sera è stata una puntata “monotematica”, sì, perché il tema da affrontare era importante e poco coperto dal resto della tv generalista – ma anche sul satellite – italiana.
Zoro, accompagnato da Pierfrancesco, si è mosso in un estenuante viaggio di diciotto ore di macchina (da Roma fino a Roszke, appunto) per raccontare in presa diretta il dramma dell’esodo dei profughi siriani, alla ricerca di un posto sicuro dove stare, qui in Europa. È sul modo che ha Zoro di condurre i suoi reportage e sui contenuti dei suddetti reportage che sta quel valore aggiunto di cui sopra, che non s’è perso neanche dopo quattro stagioni.
Messo da parte il tono scanzonato, Zoro va al cuore del problema e lo fa con il suo stile dimesso, ricorrendo a un giornalismo fatto “nel basso” più che “dal basso”, a riprendere il dramma dei migranti camminando in mezzo a loro e mostrandone il dolore, senza molti altri commenti che non siano quelli delle loro stesse voci. È un reportage che riprende solo una parte di tutto il fenomeno ma lo mostra senza censure. Diventa evidente quanto “Gazebo” resti un corollario necessario all’informazione generalista proprio quando si spoglia dell’aria ridanciana e racconta nel dettaglio notizie che i telegiornali sfiorano solamente. Forse perché le considerano di poca rilevanza per un pubblico italiano, in quanto eventi che coinvolgono altre nazioni, un po’ si sbagliando.
Un programma semplice per un orario difficile
Insomma, l’inizio di questa quarta stagione è stato col botto, anzi, meglio ancora, un pugno nello stomaco. E se da un lato dispiace che la trasmissione duri solo un’ora (per due appuntamenti settimanali), dall’altro anche la brevità ne garantisce la freschezza.
L’unico neo resta sempre quello: una seconda serata che è seconda solo di nome, perché nei fatti un programma che comincia alle 23.40 è già notte fonda e costringe molti a rivedere la puntata in streaming il giorno successivo. È un peccato, perché con tutto il suo comparto social davvero interattivo, “Gazebo” è un programma che gioverebbe soltanto di veder allargare il suo pubblico anche ai non nottambuli e al contributo di un pubblico che resta sempre fedele e molto attivo, nonostante gli sghiribizzi di un palinsesto a dir poco ballerino.