La coltura dell'ulivo in Salento affonda le proprie radici nelle origini stesse di questa terra che possiede, per natura, tutto ciò di cui la pianta ha bisogno: sole, vento e aria salmastra; terra secca e arida, ma ricca di sali minerali e calcio.
In Salento, l'ulivo non ha semplicemente attecchito: qui, l'Olea Europea è potuta diventare la regina indiscussa del territorio, trasformandosi nell'oro verde delle relazioni commerciali e nella prima, grande ricchezza del territorio, considerata quasi una forma d'arte.
Le origini storiche della coltura dell'ulivo in Salento
Tra storia, leggenda e mitologia, è ormai storicamente appurato come sia stato merito dei primi ulivocoltori salentini l'avere saputo tramandare a Greci, Romani e Arabi le tecniche di coltivazione e spremitura dell'ulivo.
Storicamente, questa pianta veniva lasciata crescere in modo spontaneo (a macchia), senza che l'uomo intervenisse. Tale usanza ha dato forma (e aroma) alla prima specie autoctona salentina, denominata "Olivastra", un tempo utilizzata anche per usi comuni (come, ad esempio, per l'illuminazione) e poi come oliva da taglio.
Furono i Romani a dare un impulso tutto nuovo alla coltivazione dell'ulivo che finì per soppiantare, in gran parte, le precedenti coltivazioni cerealicole, ben meno fruttuose e competitive.
L'olio salentino cominciò dunque a essere esportato in tutto l'Impero, raggiungendo anche Grecia, Egitto e Arabia.
L'incremento dei commerci determinò anche un perfezionamento delle tecniche coltive che impiegarono un lungo arco temporale per essere messe definitivamente a punto.
In tale ambito, uno degli apporti fondamentali fu quello perpetrato a opera dei Saraceni che, una volta installatisi nella regione, portarono e diffusero una nuova varietà di ulivo, ancora oggi fondamentale nella produzione pugliese di olio: la cosiddetta "Cellina" (o Saracena), dotata di caratteristiche organolettiche davvero uniche.
I monaci, il Medioevo e i nuovi metodi coltivi
Molti degli uliveti che ancora contraddistinguono il panorama salentino vennero piantati dai monaci Basiliani che, tra il IX e il X secolo, costruirono e fondarono numerosi monasteri lungo la costa leccese, circondandoli di orti, giardini e uliveti.
Fu per opera di questi religiosi, in effetti, che le macchie selvatiche di Olivastra vennero trasformate in appezzamenti recintati da muretti in pietra e organizzati in filari ordinati, nei quali venivano messe a dimora le giovani piante, allevate in maniera più "domestica" mediante sapienti interventi di innesto che ne equilibrarono le proprietà organolettiche.
Risalgono proprio a tale periodo alcuni degli uliveti secolari più antichi del Salento e che sopravvivono ancora oggi.
A causa della crisi del Medioevo e al generale peggioramento delle condizioni climatiche europee, però, l'ulivocoltura subì una battuta d'arresto che concentrò l'intera produzione locale nelle mani di pochi ricchi possidenti terrieri.
I Comuni, l'Illuminismo e l'età dell'oro dell'olio salentino
L'apice della produzione di olio in Salento venne raggiunto durante l'epoca dei Comuni e nel periodo immediatamente successivo, inquadrandosi negli anni tra il 1550 e il 1700.
L'enorme successo extra-territoriale è imputabile principalmente allo sviluppo dei commerci marittimi internazionali: all'epoca, infatti, dai porti di Brindisi, Gallipoli, Otranto e Taranto partivano navi stracolme di giare per le principali città italiane e straniere, raggiungendo persino i porti inglesi, tedeschi e russi.
Superata la crisi e la carestia del 1600, furono gli agronomi e gli uomini di scienza a perseguire il miglioramento delle tecniche coltive e di spremitura, attraverso lo studio scientifico applicato a nuovi metodi di potatura e innesto che avevano come scopo principale quello di ridurre la natura (e il sapore) selvatico dell'ulivo.
L'ulivocoltura salentina moderna
Giovani piante iniziarono a venire messe a dimora e, anno dopo anno, mediante nuove piantagioni e nuovi innesti, vennero definite le infinite distese di uliveti, tipiche del territorio, soprattutto delle aree rurali e costiere comprese tra Lecce, Tricase, Santa Maria di Cerrate, Castro, Otranto e Gallipoli.
Ancora oggi, l'olio prodotto in Salento rappresenta una delle massime ricchezze naturali del territorio e riveste un ruolo chiave nell'economia di tutta la regione, vanto dell'intera comunità, base immancabile della tradizione culinaria e parte integrante della tradizione e del folclore locali, tanto da decretarne la nomina a Patrimonio dell'Umanità da parte dell'U.N.E.S.C.O..
Oltre 35.000 ettari di terreno agricolo (pari circa al 25% dell'intero territorio regionale) risultano coltivati a ulivo. Molti degli alberi più antichi, però, sono purtroppo recentemente deceduti (o sono stati abbattuti), a seguito della terribile epidemia di Xyella del 2013, che ha causato una vera e propria catastrofe naturale.
Frantoi ipogei e specie principali
Anticamente la spremitura delle olive avveniva nei frantoi ipogei (ovvero sotterranei), presso i quali temperatura e tasso di umidità raggiungevano livelli perfettamente adeguati alla conservazione dell'olio.
Per ovvie ragioni, questa tipologia di lavorazione venne affiancata (e quasi completamente soppiantata) dalla moderna spremitura a macchina; tuttavia, ancora oggi esistono numerosi frantoi ipogei, alcuni dei quali in attività.
Per adattare le piante alla coltivazione moderna, facilitarne la maturazione e ottenere raccolti migliori, due furono le principali specie su cui si concentrarono i coltivatori. Ancora oggi sono proprio queste a detenere il primato all'interno della produzione: l'Agliarola leccese (maggiormente soggetta ad alternanza produttiva) e la Cellina (detta anche di Nardò) che, attualmente, si rivela essere la più diffusa e quella maggiormente apprezzata, grazie all'elevata produttività e al gusto rustico.