È un venerdi come tanti altri di una stagione ancora incerta. Non fosse il per il numero e per il mese, apoteosi infausta dei più superstiziosi, questo 17 novembre sarebbe passato sotto silenzio, come tanti altri. E invece rimarrà nella memoria di troppi, chi per senso di giustizia, chi con sollievo, o ancora con rancore o scoraggiamento. Ma Totò Riina, il Capo dei Capi, si è spento nel reparto detenuti dell'ospedale Maggiore di Parma, nel buio delle 3.37 del mattino.

Ultimi giorni di agonia

Totò 'u curto', Riina 'la belva', 'il padrino' o semplicemente Totò, fin dal suo arresto avvenuto nel gennaio del 1993 era in regime di 41bis, il tipo di carcere più duro riservato ai detenuti più pericolosi.

Aveva appena subito due delicati interventi al pavimento pelvico, il secondo dei quali aveva prodotto delle pesanti complicazioni costringendo i medici a ricorrere al coma farmacologico dal quale il boss non si è più svegliato.

Soltanto ieri aveva compiuto 87 anni e nonostante il permesso straordinario che il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva concesso ai familiari di Riina per poter far visita al malato, nessuno di loro era riuscito poi concretamente a recarsi nel carcere di Parma. Il primogenito sta scontando una pena all'ergastolo mentre il secondo figlio maschio è sorvegliato speciale dopo una condanna a otto anni per mafia. Anche per le due figlie del 'piedi incritati' è risultato impossibile raggiungere il padre con la più piccola ferma a Corleone, in Sicilia, e la maggiore trasferita ormai da anni in Puglia.

Ascesa implacabile, nessun pentimento

La sua prima condanna durò sei anni, nel 1949 a soli 19 anni, quando partì al servizio del boss Liggio. Da allora una lunga striscia trasversale rosso sangue fatta di esplosioni, vendette, regolamenti di conti e punizioni in quasi tutti i settori della società, dal giornalismo alla magistratura, che lo hanno portato in cima alla cupola, capo indiscusso dell'organizzazione mafiosa che dalla profonda Sicilia, in provincia di Palermo, nella sua Corleone, ha esteso le sue ramificazioni in tutto il mondo passando proprio da Roma.

Oltre infatti ai delitti di cui aveva rivendicato la paternità, tra i quali quelli del '92 in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino e quello, dieci anni prima, in cui perì l'allora prefetto di Palermo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Riina era implicato nel processo per i rapporti tra lo Stato e la Mafia, processo al quale ultimamente aveva potuto presiedere solo in teleconferenza data appunto la sua situazione di salute.

Soltanto qualche mese fa era stata presentata la richiesta di far scontare a Totò Riina il resto della pena nella sua casa di Corleone ma la magistratura aveva rifiutato la possibilità considerando l'ex boss ancora ai vertice della criminalità organizzata siciliana.

Mai un pensiero di pentimento per il boss, mai un accenno di apertura verso la giustizia ma un orgoglio incondizionato verso la sua storia e le sue azioni che ribadisce e conferma in innumerevoli intercettazioni negli ultimi due decenni. “Dovessi passare in carcere altri tremila anni, non mi pentirò mai”.

Reazioni contrastanti

Nella sua Corleone c'è chi lo considerava una brava persona e chi ha brindato alla sua morte proprio come lui disse di aver fatto alla notizia della morte dei giudici Falcone e Borsellino, ma il decesso di Totò Riina non poteva rimanere un evento di secondo piano.

In prima fila proprio la sorella di Giovanni Falcone, Maria: “Non gioisco per la sua morte, ma non posso perdonare. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato”. Rammarico nelle parole di Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso nel '93, secondo il quale con la morte di Riina scompare la possibilità di giungere alla verità.

Rabbioso, anche se pacato, il commento di Giuseppe Costanza, unico sopravvissuto della strage di Capaci: “Meno si parla di lui e meglio è. Cerchiamo di ridimensionare la figura di questo signore. Mettiamolo all'angolo. Non merita altro per quello che è stato e per quello che ha fatto.

E se ne vada in silenzio con tutti i suoi segreti”.

Tanta determinazione nelle parole di Rosy Bindi, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia: “Con Riina non è morta la mafia siciliana che rimane un sistema criminale di altissima pericolosità”. Non nasconde inoltre, il presidente, i suoi timori sulla nomina del successore di Riina.

Una sola emblematica immagine postata sulla sua pagina Facebook dalla figlia del padrino, Maria Concetta, per chiedere (intimare?) silenzio in questo giorno di lutto personale, e poche parole anche dal figlio Salvo, che solo ieri, in occasione del compleanno del padre aveva twittato “Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. Ti auguro buon compleanno.

Ti voglio bene, tuo Salvo”.

Infine si esprime il CEI, Conferenza Episcopale Italiana, nella parole del segretario generale monsignor Nunzio Galantino: “Il Signore abbia in gloria Toto' Riina, ma le cose non cambieranno con la sua morte. Bisognerà che tutti si assumano le proprie responsabilità. Le cose cambieranno se chi amministra lo farà tenendo presente lealtà e legalità”. Impensabile comunque per il CEI la benedizione della salma di Riina e la possibilità di un funerale pubblico ricordando la scomunica del Papa ai mafiosi.