Il rapporto pubblicato la scorsa settimana dall'Amazon Geo-Referenced Socio-Environmental Information Network (RAISG), un consorzio che riunisce diversi enti ambientali dei paesi amazzonici, sottolinea che tra il 2000 e il 2018, 513.016 chilometri quadrati sono stati deforestati nella regione, un'area più grande della Spagna. Tra agosto 2018 e luglio 2019, secondo i dati dell'Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale (INPE), 11.088 chilometri quadrati di foresta sono stati distrutti in Amazzonia, il livello più alto degli ultimi 12 anni.

Il climatologo Carlos Nobre - senior researcher dell'Istituto di Studi Avanzati dell'Università di San Paolo (IEA/USP) e uno dei maggiori esperti mondiali di cambiamenti climatici - ha formulato all'inizio degli anni Novanta l'ipotesi della "savannizzazione" dell'Amazzonia come conseguenza della deforestazione.

Oggi, quasi 30 anni dopo, lancia un nuovo avvertimento: "I nostri calcoli indicano che tra 15-30 anni, se continuiamo con questi tassi di deforestazione in Amazzonia, non solo in Brasile, arriveremo ad un punto di non ritorno, in cui la savanizzazione diventa irreversibile".

Come parte della soluzione del problema, Nobre difende la necessità di ridurre l'uso illegale della terra in Amazzonia e chiede un maggiore impegno da parte delle autorità pubbliche nel controllo della deforestazione.

Autore del rapporto dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) premiato con il Nobel per la pace nel 2007, il climatologo brasiliano sostiene anche che i consumatori hanno la loro parte di responsabilità e dovrebbero "tradurre il desiderio di proteggere l'Amazzonia in azioni concrete", come il consumo responsabile e sostenibile.

"Se ogni brasiliano chiedesse un certificato di origine della carne, la deforestazione in Amazzonia si ridurrebbe notevolmente", dice.

In un'intervista a BlastingTalks, Nobre parla anche del progetto Amazon 4.0, che mira a stimolare la creazione di una bioeconomia all'avanguardia nella regione così da poter mostrare alla società che "per dare all'Amazzonia il maggior valore economico possibile bisogna mantenere la foresta intatta".

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Un rapporto pubblicato lo scorso novembre dall'Inpe (Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale) indica che la deforestazione in Amazzonia è aumentata del 9,5% tra agosto 2019 e luglio 2020 rispetto alla stagione precedente. La superficie deforestata è stata di 10.129 chilometri quadrati, il dato maggiore raggiunto dal 2008. All'inizio degli anni Novanta, lei è stato l'autore di uno studio che per primo ha proposto l'ipotesi di un processo di “savannizzazione” della foresta amazzonica come conseguenza della deforestazione. A che punto è oggi la foresta? C'è la possibilità di raggiungere un punto di non ritorno?

C'è la possibilità di raggiungere un punto di non ritorno, e non siamo così lontani.

Nel sud dell'Amazzonia, tutti i dati indicano la tendenza alla savanizzazione, a diventare un Cerrado (grande savana tropicale ndr.) molto degradato. Stiamo vedendo aumentare la durata della stagione secca di 3 o 4 settimane in più rispetto agli anni Ottanta. Vediamo anche un aumento delle temperature durante la stagione secca. In questa regione meridionale dell'Amazzonia, gli alberi stanno perdendo la loro intrinseca capacità di riciclare l'acqua. Stiamo anche assistendo a un aumento della mortalità degli alberi in questa specifica regione dell'Amazzonia. Quindi, tutto questo dimostra che siamo molto vicini al punto di non ritorno, soprattutto nel sud dell'Amazzonia. I nostri calcoli indicano che tra 15-30 anni, se continuassimo con questi tassi di deforestazione in tutta l'Amazzonia, non solo in Brasile, avremo già raggiunto un punto di non ritorno, in cui la savanizzazione diventa irreversibile.

Questa è la realtà.

Dal momento in cui questo processo di savannizzazione inizierà, ci sarà come un effetto domino? L'intera regione amazzonica tenderà a entrare in questo stesso processo di savannizzazione o si limiterà a zone già disboscate?

Inizia da lì, ma poi aumenta molto la sua azione e va dal nord-est dell'Amazzonia - Amapá, Guyana -, scendendo praticamente fino al Pará e andando verso ovest - Mato Grosso, Amazonas. Rimarrà una foresta solo a ovest dello stato di Amazonas, in Colombia e in una parte del Perù. Solo il 30% della foresta rimarrà lì. Nel resto del sud, centro ed est dell'Amazzonia, questo processo si diffonderà.

Quali misure ritiene che siano alla portata delle autorità pubbliche e che debbano essere applicate affinché si possa iniziare a invertire questa situazione?

Il Brasile ha un'importante esperienza di successo nella riduzione della deforestazione. Gli studi indicano che non meno del 90% della deforestazione è illegale. Pertanto, l'azione criticamente necessaria è quella di ridurre l'illegalità dell'uso del suolo in Amazzonia. Nel 2012 sono stati deforestati 4.600 chilometri quadrati. Nell'ultimo anno, l'Inpe ha registrato quasi 11.100 chilometri quadrati deforestati. Così siamo passati dai 27.000 chilometri quadrati disboscati nel 2004 al livello storico più basso mai raggiunto da quando l'Inpe ha effettuato questo tipo di monitoraggio. Ciò è dovuto principalmente alle politiche di controllo, alle efficaci ispezioni dell'Ibama (Istituto brasiliano dell'ambiente e delle risorse naturali rinnovabili), dell'ICMBio (Istituto Chico Mendes per la conservazione della biodiversità), dei dipartimenti statali per l'ambiente, della Polizia federale in associazione con la polizia di Stato.

Tutto ciò ha funzionato molto bene perché stavano facendo pressione sulla criminalità organizzata.

Può farci qualche esempio?

Per esempio, nel 2005 il Ministero dell'Ambiente ha approvato un quadro giuridico che consente la distruzione di macchine - trattori, motoseghe - sequestrate per disboscamento illegale. Un grande bulldozer costa fino a 1,5 milioni di R$ [circa 300.000 dollari]. Chi finanzia la deforestazione illegale ha iniziato a subire un'enorme perdita finanziaria. Senza dimenticare anche che la polizia federale ha collaborato con i servizi segreti ed è riuscita ad arrestare molti dei finanziatori del crimine organizzato e di coloro che hanno pagato per l'accaparramento di terreni, per il furto di legname.

Questo quadro giuridico è stato un fattore chiave nel tentativo di punire la criminalità organizzata...

Tutto è cominciato quando le forze dell'ordine hanno iniziato a mettere sotto pressione la criminalità organizzata. Il che ha aumentato notevolmente il rischio di essere puniti, di essere arrestati, di perdere diversi introiti, e la deforestazione è stata notevolmente ridotta. La polizia, l'Ibama, tutti hanno fatto un lavoro articolato. Ma costa circa 300 milioni di R$ [circa 60 milioni di dollari] all'anno.

Dalla recessione economica del 2015 sono iniziate a scarseggiare le risorse e le ispezioni sono diminuite. La deforestazione, invece, ha continuato ad aumentare, perché la criminalità organizzata era presente in Amazzonia, anche per mezzo di alcuni rappresentanti politici.

Negli ultimi anni, oltre a non avere risorse, c'è stata una presa di posizione politica da parte del governo federale per riprendere il modello di sviluppo obsoleto dell'Amazzonia, che non vede alcun valore nella foresta e pensa che debba essere eliminata. A febbraio il presidente [Jair Bolsonaro] ha dato l'ordine di non distruggere più le macchine che praticano la deforestazione illegale. Questo discorso politico e la mancanza di risorse per le ispezioni contro il reato di accaparramento delle terre o quello di furto di legname, hanno lanciato alla criminalità organizzata un messaggio molto chiaro ovvero che non ci sarà nessuna punizione.

Quindi il metodo più efficace per frenare la deforestazione sarebbe quello di applicare nuovamente controlli più severi?

Questo meccanismo, che è stato efficace nel 2012-2013, per ridurre notevolmente la deforestazione, deve essere permanente, fino a quando non si può effettivamente cambiare il modello economico della regione e indebolire notevolmente la criminalità organizzata. Ma non è una cosa che accade da un giorno all'altro. Può richiedere decenni. Deve essere implementato in modo vigoroso, più efficace, in modo che si danneggi la criminalità organizzata abbastanza da rallentare o abbandonare questo tipo di affari.

Può spiegarci come funziona?

I satelliti indicano le aree disboscate quotidianamente, in un sistema chiamato Deter [Real Time Deforestation Detection System], sviluppato da Inpe. Ad esempio il satellite rileva ogni giorno i disboscamenti effettuati in un'area pubblica.

Le informazioni arrivano ogni giorno all'Ibama e alle agenzie statali di controllo ambientale. Quindi, raggiungere il luogo dove avviene la deforestazione irregolare è totalmente fattibile. Ma è costoso. A volte è un luogo lontano, dove si può arrivare solo in elicottero. Quando ci si arriva, si ferma la deforestazione illegale, si distrugge la macchina, ma si arrestano i lavoratori, che sono semi-schiavi, non il finanziatore o il mandante che non si trova in loco.

Quando la deforestazione avviene su proprietà privata l'Ibama applica le multe dopo essere arrivata sul luogo. Ora, l'Ibama non riscuote nemmeno il 2% di queste multe, storicamente. Il proprietario privato che disbosca illegalmente un'area presuppone già di non pagare.

Così, chi ha disboscato illegalmente e chi ha anche rubato la terra si aspetta che dopo 5, 10 anni il Congresso approvi una legge che regolarizzi tutto.

Abbiamo diversi esempi nella storia in cui la mobilitazione dell'opinione pubblica è servita da catalizzatore per la soluzione dei problemi. Fino a che punto pensa che la società di oggi sia consapevole dei pericoli del cambiamento climatico e faccia pressione sulle autorità e sulle grandi imprese affinché prendano una strada diversa?

I brasiliani vedono l'Amazzonia come un valore culturale ed estetico della natura. Due sondaggi effettuati il mese scorso mostrano che tra il 97% e il 99% dei brasiliani è a favore della protezione dell'Amazzonia.

Voglio dire, è un consenso, un'unanimità. Questa è una richiesta di consumo responsabile. Se ogni brasiliano chiedesse un certificato di origine della carne, la deforestazione in Amazzonia si ridurrebbe notevolmente. I brasiliani devono tradurre questo desiderio di proteggere l'Amazzonia in azioni concrete. Deve essere un'azione che parte dal consumatore perché il governo è stato troppo tollerante nei confronti della deforestazione. Il consumatore deve praticare un consumo responsabile e sostenibile.

Poi c’è il grosso problema del legname illegale…

Circa l'80% del legno [estratto] dall'Amazzonia è illegale, e quasi tutto il legno illegale viene venduto in Brasile. L'acquisto legale, nei casi di concessione per il taglio, è un numero irrisorio di alberi per ettaro: due, tre, cinque.

Quando si va a tagliare tutti gli alberi che hanno un valore economico, si tagliano 50, 80 alberi per ettaro e si aprono dei sentieri per far passare i trattori che tirano gli alberi, e quei sentieri sono poi utilizzati da chi va a disboscare ancora di più, per portare le mandrie ai pascoli. Quindi, se tutti i brasiliani chiedessero un certificato di origine sia per la carne che per il legno, il disboscamento si ridurrebbe notevolmente.

Bisogna aggiornare i certificati. Per esempio, esiste una rete di certificati di legno contraffatti. È una rete enorme. Circa l'80% del legno viene raccolto illegalmente e, sul mercato del sud-est del Brasile, arriva con le direttive dell'Ibama come se tutto fosse legale, ma non è così. La Polizia Federale continua a smantellare le reti di contraffazione.

Molti mercati che consumano legname, per esempio, diversi stati qui nel sud-est, hanno leggi che proibiscono l'acquisto di legname dall'Amazzonia sprovvisto di certificato che si tratti di un raccolto legale. Quindi, c'è un'industria della contraffazione e la polizia deve agire continuamente.

Per quanto riguarda questo scandalo accaduto pochi giorni fa, in cui il presidente [Jair Bolsonaro] ha minacciato di denunciare i Paesi che hanno acquistato legname illegale - quando la percentuale di legname illegale esportato è molto piccola -, chi autorizza l'esportazione però è l'Ibama, quindi, se ha autorizzato l'esportazione di legname illegale, l'errore primario è quello dell'Ibama. Esistono però alcuni metodi di riconoscimento la polizia federale ad esempio ne sta sviluppando alcuni basati sul DNA dell'albero. Si traccia la mappa del DNA e si conosce l'origine esatta dell'albero, se proviene da un territorio indigeno, da un'unità di conservazione, da un'area pubblica, o se proviene, per esempio, da aziende che hanno concessioni legali per lo sfruttamento sostenibile del legno proveniente da foreste nazionali. Serve ad avere la documentazione genetica del DNA di quegli alberi in quella regione. Quindi, quando arrivano in un porto o in qualche paese straniero, si traccia il DNA e si valuta la provenienza. Oggi abbiamo una strumentazione moderna e, se ci fosse la volontà politica, si potrebbe ridurre notevolmente il disboscamento illegale.

Gran parte della deforestazione sia nella regione amazzonica che nel Cerrado è causata dall'espansione della monocoltura e dell'allevamento del bestiame, due attività che hanno una fortissima lobby al Congresso. Crede che la strada per la soluzione della crisi climatica passi, irreparabilmente, attraverso il confronto con queste due attività economiche? Oppure c'è spazio per una soluzione che metta d'accordo tutte le parti?

La produttività del bestiame brasiliano è molto bassa, 1,35 capi di bestiame per ettaro in tutto il Brasile. Il potenziale minimo di produttività del bestiame sarebbe di 3 capi di bestiame. Ci sono aziende agricole ad alta produttività con 4, 5 capi di bestiame [per ettaro]. Ci deve essere un cambiamento importante nelle pratiche zootecniche in Brasile. Dieci anni fa, il Ministero dell'Agricoltura ha lanciato il Piano Agricolo a basse emissioni di carbonio. Uno degli elementi più importanti del piano è stato il sistema integrato coltura-bestiame-foresta. Sono stati disposti prestiti con interessi agevolati. Il governo stava praticamente dando soldi agli allevatori per invertire questo modello distruttivo e diventare un allevamento moderno e redditizio che non ha bisogno di espandere la propria area. Gli studi di Embrapa dimostrano che, così facendo, si ridurrebbe la superficie zootecnica del 25% e si aumenterebbe la produzione del 35%. Dieci anni dopo, solo il 7% degli allevatori ha adottato sistemi integrati. La stragrande maggioranza era costituita da un sistema coltura-bestiame, pochi avevano adottato un sistema coltura-bestiame-foresta che è il migliore, dato che il bestiame è più produttivo quando c'è ombra. Questo dimostra un attaccamento culturale all'allevamento del bestiame a bassissima produttività.

Per quale motivo?

Il valore culturale della stragrande maggioranza degli allevatori brasiliani è legato alla dimensione del terreno, non alla sua redditività. Un mio collega di Embrapa, Eduardo Assad, parla della differenza tra agricoltori e allevatori di bestiame. L'allevatore di bestiame così come l'agricoltore, sceglierà il sistema migliore, il più redditizio, il più produttivo. Quando si realizzano i sistemi integrati, con la rotazione del bestiame, c'è un collegamento. L'allevatore porta le mandrie per sei mesi in un pascolo poi va in un altro mentre l'agricoltore può piantare alcune colture che aiutano a ricomporre la concimazione, per esempio, piante che recuperano l'azoto del terreno e così facendo si lasciano crescere gli alberi per ombreggiare il bestiame. Nel sistema integrato coltura-bestiame-foresta con rotazione del bestiame si mantiene la produzione zootecnica per decenni e decenni. La maggior parte dell'allevamento di bestiame in Amazzonia rimuove la foresta e la brucia, così si ha un pascolo molto produttivo per un massimo di 5, 7 anni, poi la produttività finisce, perché i terreni amazzonici sono molto poveri di nutrienti, quindi si abbandona la terra e si passa alla zona successiva. Con l'allevamento produttivo del bestiame in Amazzonia, si potrebbe ridurre la superficie [di allevamento] del 50% e mantenere lo stesso volume [di produttività]. Stessa cosa per il Cerrado. l'allevatore è abituato a dire: "questa terra è mia, e ora sono un rancher". È un fenomeno culturale che esiste in Brasile.

Chi avrebbe la responsabilità di cercare di indurre i produttori ad adottare queste pratiche più moderne?

Ci devono essere delle politiche pubbliche. Ad esempio, diverse aziende della filiera della soia chiedono la certificazione di origine. A partire dall'anno scorso, i fondi internazionali non vogliono più investire in queste grandi aziende della filiera della carne o della soia se non dimostrano l'origine di quelle che vengono chiamate catene di approvvigionamento senza deforestazione. Le stesse grandi aziende produttrici di carne cominciano ora a chiedere la tracciabilità. Insomma, siamo in un momento di transizione. Pertanto, se c'è una continuità in questo processo di transizione, la deforestazione dovrebbe diminuire nei prossimi anni. A meno che il governo federale, e alcuni governi statali e sindaci in Amazzonia, non siano totalmente a favore della distruzione della foresta. Non so davvero chi vincerà questa lotta, se le grandi imprese, che temono di perdere i mercati internazionali, o la politica di espansione permanente della frontiera delle materie prime. È una questione che credo sia ancora aperta.

Abbiamo appena parlato di un intero mercato di false certificazioni per la vendita di legname. Crede che qualcosa di simile possa esistere sia nel mercato della carne che in quello della soia?

Ovviamente anche nel mercato della carne. Per esempio, una cosa che è stata segnalata da varie organizzazioni è che la gente nutre il bestiame su terreni sgomberati illegalmente per due anni e, tre mesi prima della macellazione, lo trasferisce in un'area legale dove registra l'intera documentazione. Quindi, è possibile, ma i meccanismi di tracciabilità oggi stanno diventando molto moderni, con tecnologie molto avanzate. È possibile avere meccanismi di tracciabilità della filiera della carne e della soia. C'è una tendenza mondiale in questa direzione, e questo dovrebbe essere un vettore per ridurre la deforestazione.

Attualmente siete impegnati in un progetto chiamato Amazon 4.0 che, in sintesi, propone lo sfruttamento sostenibile della biodiversità forestale e la creazione di una bioeconomia all'avanguardia in Brasile. Potrebbe spiegare meglio il concetto del progetto, quali sono i passi per la sua realizzazione e, soprattutto, quali le sfide per il suo successo?

Il progetto Amazon 4.0 nasce proprio dall'idea di dimostrare che il maggior valore economico dell'Amazzonia è il mantenimento della foresta. L'industria della Açaí (pianta della famiglia delle palme diffusa in Amazzonia ndr.), del cacao, della noce brasiliana, e molte altre ancora, hanno una redditività per ettaro che è da 5 a 10 volte superiore a quella della carne, da 2 a 4 volte superiore a quella della soia. Delle colture di Açaí, per esempio, hanno già beneficiato più di 300 mila persone in Pará. Molti piccoli agricoltori stanno abbandonando il bestiame per passare a sistemi agroforestali con cacao e Açaí. Così, Amazon 4.0 vuole dimostrare che è possibile portare le industrie moderne, con la tecnologia dell'industria 4.0, in Amazzonia, per industrializzare questi prodotti forestali e con un enorme valore aggiunto. Questa è l'idea.

Può spiegarci come funziona Amazon 4.0 dal punto di vista pratico?

Siamo ancora in una fase iniziale e nel 2021 formeremo le comunità amazzoniche per la catena del cupuaçu e del cacao, per realizzare cioccolato, cupolato, una serie di prodotti. Questo è un primo laboratorio, una piccola bio-fabbrica per la formazione delle comunità. Lavoreremo con quattro comunità nello stato del Pará. Andremo anche nel campus di un'università di Manaus, nello stato di Amazonas, per portare ai giovani questa eco-imprenditoria. Abbiamo già progettato alcuni di questi laboratori di formazione. Uno che abbiamo finito di costruire a febbraio è quello di cui ho parlato di cupuaçu e cacao. Ma abbiamo già un progetto pronto per le risorse genetiche, il sequenziamento genomico, le noci e gli oli gourmet. Inizieremo il progetto relativo all'açaí già a gennaio. Siamo alla ricerca di risorse per realizzare tutti questi laboratori e cominciamo a dimostrare che è possibile industrializzare questi prodotti, aggiungendo valore.

Leggi le interviste a Svein Tveitdal e Jeroom Remmers, parte della serie BlastingTalks sul cambiamento climatico.