Chiusa nuovamente, a poche ore dall’Election Day, l’inchiesta sullo scambio poco chiaro di email alla e dalla Clinton conclusasi una prima volta con le indagini di luglio e poi riscoppiata nei giorni scorsi, divampando prepotentemente nell’elettorato nell’ultima fase della campagna presidenziale e abbattendo tutto il margine di vantaggio tra la candidata democratica e il repubblicano Trump, secondo alcuni sondaggi passato addirittura in testa in certi frangenti. Tramite una lettera del direttore dell’Fbi James Comey inviata al Congresso viene specificato che anche questa seconda certosina scansione del materiale di posta elettronica non ha dato modo di riscontrare alcun reato.

Cos’è l’emailgate?

L’avvio della vicenda è da rintracciarsi in un’indagine dell’Fbi su tutt’altra questione: una presunta attività di “sexting”, in altri termini lo scambio di contenuti testuali, fotografici e video a sfondo erotico-sussuale, tra l’ex membro della Camera dei Rappresentanti Anthony Weiner e una ragazza quindicenne conosciuta in rete. L’uomo, non nuovo ad episodi di questo tipo, ha voluto il caso fosse anche il marito di Huma Abedin, la più stretta collaboratrice della Clinton sia in questa corsa presidenziale sia prima, quando la candidata era Segretario di Stato.

Ecco dunque nell’analizzare minuziosamente il laptop di Weiner - comunque spesso utilizzato anche dalla moglie - alla ricerca di messaggi allusivi o immagini di nudo, emergere qualcosa di inaspettato, una fitta corrispondenza tra la Abedin e la Clinton in cui comparivano diversi contenuti secretati per ragioni di riserbo di Stato.

Nello specifico, tra email ricevute e inoltrate a terzi figurerebbero 110 messaggi anticipati dalla lettera “C”, ovvero “classificato”, ad indicare un’informazione tanto delicata da poter essere trasmessa solo tramite server governativi. Per intenderci, all’interno di questo scambio poco consono, sono state fatte risalire a quel periodo dal 2009 al 2013 in cui la Clinton era Segretario di Stato anche espliciti contenuti riguardanti l’attacco al Consolato statunitense di Bengasi del 2012, durante il quale morirono l’ambasciatore americano Chris Stevens e altri tre suoi concittadini, per un complesso di 110 messaggi classificati di cui 65 rientranti nella categoria “secret” e 22 in quella “top secret”.

Questa, in sostanza, l’accusa: personale che aveva il diritto di accedere a quelle informazioni ma che, in aggiunta agli appositi terminali governativi, aveva a più riprese utilizzato computer personali, appoggiandosi dunque a normali server privati, esponendo potenzialmente quei messaggi alla possibilità di essere intercettati.

Una sferzata alla quale la Clinton aveva sempre risposto dicendo che per tutto il suo mandato non aveva mai inteso che quella “C” in capo al testo stesse ad indicare contenuti classificati, e che pertanto aveva utilizzato anche dispositivi personali per interagire con i collaboratori dopo il normale orario di lavoro.

Seconda chiusura dell’Fbi e la rabbia di Trump

Nonostante questo secondo momento di vaglio da parte del Bureau le conclusioni sono state le stesse espresse nel primo compimentodelle indagini risalente allo scorso 5 luglio. Una dura critica da parte di James Comey sulla leggerezza della Clinton e del suo staff ristretto nel comunicare informazioni estremamente delicate attraverso canali non protetti, ma totale assenza di ogni estremo di reato.

Adirato l’avversario alle presidenziali Trump che vede così sfumare quell’asso nella manica che tanto gli aveva fatto guadagnare negli ultimi giorni di campagna. Così tuona dal Michigan: «Il sistema è manipolato. Non è possibile controllare 650.000 mail in 8 giorni. La Clinton è colpevole, la gente lo sa e dovrà essere il popolo americano a fare giustizia l’8 novembre. A livello del Bureau, comunque, ci sarà una mobilitazione degli agenti di rango più basso per fare chiarezza lì dove non ci ha pensato Comey»