C'è gelo sullo schermo e così nel cuore degli spettatori che, alla prima proiezione del kolossal alpinistico 'Everest', film d'apertura della 72ma Mostra del Cinema di Venezia,sono rimasti letteralmente paralizzati: né applausi né fischi per un'opera che sembra aver suscitato un unico sentimento, l'indifferenza. Realizzato in 3D dal pur talentuoso regista islandese Baltasar Kormákur, artista eclettico e coraggioso con un passato di attore teatrale, anche produttore e montatore, il film è stato girato tra il Nepal, l'Alto Adige e gli studi di Cinecittà, con una lunga post-produzione a Hofsós, un villaggio con 200 anime nel Nord dell'Islanda, vicinissimo alla tenuta in cui il regista vive insieme ai 5 figli.

Riunisce un cast stellare, che comprende, tra gli altri, anche Jake Gyllenhaal, Keira Knightley, Robin Wright, Emily Blunt, John Brolin, John Hawkes, Sam Worthington, tutti attesi questa sera sul red carpet, con la sola eccezione dell'ex signora Penn, impegnata altrove.

Basato sulle memorie di un sopravvissuto, 'Everest' ricostruisce con ambizioni realistiche, la disastrosa spedizione sulla vetta più alta del mondo in cui, l'11 maggio 1996, persero la vita otto persone: il regista, coerente con la sua ricerca cinematografica da sempre tesa all'indagine sui limiti del corpo e sul rapporto tra uomo enatura, sembra rincorrere il senso di una sfida impossibile da vincere, in cui personeapparentemente appagate, con esistenze risolte e affetti,finiscono per sacrificare ogni cosa: il desiderio di fuga dall'oppressione dell'ordinario e del quotidiano, la ricerca dell'adrenalina, la volontà di partecipare allo spettacolo del mondo sono sufficienti a spiegare quel furore cieco di competere con la montagna e la sua energia misteriosa che così tanti uomini hanno provato?

Un interrogativo che, evidentemente,non è riuscito a stimolare il pubblico, confuso da una narrazione accurata, ma fiacca, priva diuna forzavibratile ed emotiva. Eppure, oltreal tema più universale del confronto con i propri limiti,il filmsembra adombrare anche una puntuale critica sociale, quella della 'commercializzazione' delle esperienze estreme, della trasformazione di luoghi di magnificente bellezzain parchi giochi, oggetti di business:una riflessione condivisadall'alpinista Reinhold Messner che, in una recente intervista alla Stampa avevadefinitol'Everest"un palcoscenico per matti che non sanno scalare e si fanno portare in cima.

Non dagli sherpa, ma dalle tante agenzie di viaggio: turisti che pagano per fare il tour". Ma anche allo storico scalatore il film non è piaciuto: "è una cartolina in cui manca l'attore principale, la montagna".