Chi ricorda "I Due Assi del Guantone" di Franco e Ciccio? Chi rammenta i discorsi intorno ad un tavolo su Muhammad Ali fatti dal grande Mario Carotenuto con Ingrassia nell’improvvisato ruolo di manager? Bei tempi quelli, quando si parlava di boxe. Scherzi a parte, la visione del film Southpaw, l’ultima sfida ci ha lasciati sconcertati e la recensione che possiamo darne non può che essere negativa. Sarà che il trailer sembrava perfetto, sarà che ci eravamo immaginati tutt’altro, sta di fatto che le due ore e più viste sul grande schermo sono state di una banalità disarmante.

Per dirla alla Morandini, una sola stellina.

Recensione Soutpaw, l’ultima sfida: non si salva niente nemmeno per sbaglio

Chi pensava di andare a vedere un nuovo Toro Scatenato si è sbagliato di grosso. Il protagonista di Southpaw non ha la profondità e la tragedia esistenziale di un La Motta di scorsesiana memoria. Non c’è nemmeno la complessità caratteriale di un Rocky Balboa, ma il grosso guaio è che questo Billy Hope (il protagonista del film interpretato da Jake Gyllenhaal) non ha proprio nulla che lo caratterizzi se non un gran fisico e soprattutto il fatto che di tanto in tanto perde la calma. Il film può essere infatti sintetizzato in poche parole: quando ti arrabbi, conta fino a 10. Un film sulla rabbia, una morale mal celata e poco sviluppata.

Due ore di visione per sostenere che non bisogna perdere le staffe e fare a cazzotti. Per il resto, ci troviamo di fronte ai soliti stereotipi del genere: ascesa, caduta e resurrezione di un campione che nel frattempo è riuscito a gestire l’animale che ha dentro grazie all’intervento di un vecchio manager saggio e naif.

Una sceneggiatura di una banalità sconcertante con originalità zero, dove probabilmente lo script ha fatto affidamento soltanto al canovaccio abusato e riabusato di Rocky, senza minimamente prendere in considerazione tutto il panorama cinematografico che la boxe ha rappresentato negli anni, quando il pugilato era metafora di vita e ha fatto da scenario a vecchi noir che probabilmente il regista Foqua non ha nemmeno mai visto.

Ci riferiamo a Stasera Ho Vinto Anch’Io, Il Colosso d’Argilla, oppure Una Faccia Piena di Pugni (giusto per citarne alcuni). Quel che è peggio è che ad un certo punto si è avuta quasi la sensazione che nelle scene da bar con Whitaker il regista stesse cercando di ricreare (ovviamente senza minimamente riuscirci) quell’atmosfera degradata e nichilista del capolavoro Fat City, ma facciamo finta che non l’abbia fatto apposta.

Per non parlare poi della mielosità di determinate sequenze, scene così sdolcinate e strappalacrime che a confronto C’è Posta per Te di Maria De Filippi diventa cinico e asciutto come un film di Thomas Vinterberg.

La moglie (la bella e per fortuna brava Rachel McAdams) che mentre esala l’ultimo respiro gli dice: “non fa niente, io ti amo, ti amo”, padre e figlia che si struggono e si strappano i capelli in un’aula di tribunale. Foqua mette il piede sull’acceleratore del pietismo e per bilanciare crede poi di rappresentare la boxe con sangue e sudore finendo per mostrare i corpi di atleti martoriati manco se avessero fatto MMA. Le scene dei match poi sono davvero disarmanti, i pugili si scambiano colpi come nemmeno nel primo Rocky per non parlare del ridicolo cambio di guardia (da qui il titolo Southpaw) che Hope opera negli ultimi secondi del film per buttare giù il rivale. Alla fine vien voglia di andare a vedere Bomber di Bud Spencer.