"La campana di vetro" è l'unico libro di silvya plath. La scrittrice statunitense, famosa sopratutto per le sue poesie, lo pubblicò utilizzando uno pseudonimo nel 1963, un mese prima di suicidarsi. Rileggendolo a più di cinquanta anni di distanza, il libro non sembra assolutamente chiuso nella sua epoca, quanto invece attualizzabile in tante sue sfumature. Pur non essendo l'unico a trattare tematiche come la depressione, la morte, o semplicemente l'incertezza della vita.

La protagonista, Esther Greenwood, ottiene una borsa di studio per svolgere un periodo di praticantato presso una prestigiosa rivista femminile.

Si trasferisce così dalla provincia alla sfavillante New York; ma se la città inizialmente conquista Esther, con il tempo rivela anche la sua natura sostanzialmente vuota, fatta di eventi e vestiti sfavillanti, ma incapace di lasciare davvero un segno. Come non vedere in questo una riproduzione di ciò che tanti, giovani e non, fanno ancora oggi? In quanti arriviamo quasi ad odiare il nostro piccolo paese, quanti progetti facciamo per scappare via, magari verso una grande città,il più lontano possibile, per poi ritrovarci in mano niente altro che le nostre illusioni?

Cambiare cielo per cambiare animo

Esther arriva a New York piena di aspettative, cerca di lasciarsi coinvolgere e conquistare dalla grande metropoli che non può che essere fantastica.

Ma il suo disagio non impiega molto a manifestarsi. Quella "campana di vetro", simbolo metaforico di tutto ciò che ci va stretto, di tutto ciò che non piace, di tutto ciò che vorremmo cambiare senza riuscirci mai davvero, volente o nolente segue la nostra protagonista, che in un primo momento cerca di sfuggirle, finendo poi per farsi assorbire completamente da tutto ciò che nella sua vita non va.

Il romanzo, fortemente autobiografico, ci mostra una Esther che cerca faticosamente di trovare la sua strada, si perde, non mi arrende, cerca di rimettersi in carreggiata, cedendo infine alla tristezza, alla depressione, a tutto ciò che non riesce a cambiare. Accetta di essere giudicata pazza, si sottopone all'elettroschock e si fa ricoverare in un istituto psichiatrico.

E noi lettori non sapremo mai se quell'istituto, se la dottoressa incontrata lì, l'unica che sembra in qualche modo riuscire ad instaurare un rapporto con Esther, siano riuscite ad aiutare la nostra protagonista. Perché se c'è una cosa che il romanzo ci insegna, è che la frase "non basta cambiare cielo per cambiare animo" è vera, vera fino in fondo. Esther sta male ovunque, a New York e a casa sua, con le amiche e con sua madre, con i ragazzi con cui cerca di instaurare qualcosa senza riuscirci davvero. Se stiamo male, stiamo male ovunque, non importa dove siamo o chi abbiamo intorno; e una cosa vera come poche è che l'unico modo per stare meglio è capire, e cercare di cambiare, cosa non va dentro di noi.

Noi, artefici del nostro destino, che diamo spesso la colpa agli altri per tutto ciò che non ci piace della nostra vita, semplicemente perché non riusciamo ad accettare che la colpa sia soltanto nostra.

L'albero di fico, emblema delle scelte non fatte

Quasi all'inizio del libro, Esther legge la storia di un ebreo e di una suora, che innamoratisi l'uno dell'altro, si incontrano periodicamente sotto un albero di fico. La protagonista afferma allora di aver visto la sua vita "diramarsi come il verde albero di fico del racconto". Ciascun ramo diventa simbolo di una possibilità, di un sentiero che Esther potrebbe imboccare. Ma quei rami sono troppi, talmente diversi l'uno dall'altro che, per la protagonista, diventa praticamente impossibile sceglierne uno.

Quanti di noi non hanno provato almeno una volta questa sensazione? Quanti si sono ritrovati a un bivio, a dover scegliere magari tra tante facoltà universitarie, o tra l'università ed una scuola di specializzazione, e prima di allora tra liceo e istituto tecnico? Quanti, finita l'università, si sono ritrovati di fronte al mondo, quello vero, che sembra offrire infinite possibilità, così tante che scegliere una cosa, una soltanto, rischia di farci diventare pazzi? Quanti, nelle loro vite, si ritrovano circondati da così tante opzioni da arrivare a preferire non sceglierne neanche una, perché la paura di buttarsi, e provarci fino in fondo, è troppa?

Non siamo forse tutti un po' Esther, in balìa degli eventi, con i nostri tanti, troppi momenti no, con la nostra vita già decisa o in fase di perfezionamento, che a volte sembra più forte di noi?