Un libro che narra di una storia che, dal particolare, tende ad abbracciare l'universale di una profonda riflessione esistenziale sull'eterna connessione fra interiorità ed esteriorità, sul continuo ripetersi nella vita di situazioni e tendenze e sulla volontà di uscirne attraverso un percorso di crescita personale che, inevitabilmente, va anche a confrontarsi con tutto ciò che circonda il singolo individuo. Questo, in sintesi, è "Sempre Mai Più", romanzo di Monica Ventra edito dalla casa editrice napoletana GM Press.

L'autrice ci ha rilasciato un'intervista esclusiva nella quale ha toccato varie tematiche inerenti la portata, il significato del suo testo, ma anche la sua esperienza personale come scrittrice che, per la prima volta, si è cimentata in questo genere letterario che ha definito "un'esperienza molto forte".

Intervista a Monica Ventra

Com'è nata l'idea di scrivere questo libro?

L'idea è nata dall'esigenza, dall'urgenza di giungere a un punto preciso di scarto, e di toccare quella cesura tra il "sempre e mai più" del titolo. Il "sempre" l'ho visualizzato dentro di me all'inizio come un cerchio e una linea retta tangente questo cerchio, ma la cosa importante è che quest'immagine rappresentava l'eterno ritorno alla coazione a ripetere, la tendenza che ognuno di noi ha nel ripetere sempre la stessa esperienza perché, arrivato ad un certo punto della vita, ti rendi conto che gli ostacoli che si frappongono tra te e le cose sono anche dentro di te; vengono dall'esterno, ma sono anche dentro di te. Quindi, rispetto a questo "sempre", a questo tornare su se stessi, sulla stessa cosa, che poi è sempre diversa ma ha una parte dello stesso archetipo - parlando sempre di problemi - esiste poi questa possibilità di uscire attraverso un lavoro che permette di ritrovarsi fuori da questo cerchio e quindi di andare verso un "mai più" che non sarà ovviamente assoluto, ma sarà rispetto a questa coazione a ripetere, a questo eterno ritorno.

Diciamo che il tragitto per arrivare a tutto ciò è sicuramente un percorso psicologico, una pratica di riflessione, di analisi, che però è liberatoria, che non intendo come qualcosa di coatto, di chiuso, oppure di sorvegliato, di guidato dall'alto; lo intendo come un incontro fra interno ed esterno, dunque un incontro tra la personalità e le cose. Questo percorso è sicuramente sofferto perché è l'ambizione di uscire da questo eterno ritorno, non perché ci sia all'origine una sofferenza particolarmente tremenda.

La copertina del libro che non ho scelto io, ma che mi è piaciuta subito - prosegue l'autrice - a parte alludere al viaggio reale, quello concreto in treno che compie la protagonista, esprime molto bene quest'incrocio anche se non ci sono il cerchio e la retta, ma c'è qualcosa di simile nella sostanza, cioè questa cesura, quest'incrocio, questo andare...

apparentemente i binari dovrebbero andare in linea retta, in parallelo tra loro, e poi vanno verso un qualcosa che è un'apertura. Il grigiore dello sfondo, lungi dall'alludere a qualcosa di misterioso tipo giallo o ad un qualcosa di lugubre, in realtà è la nebbia inevitabile che c'è prima del chiarimento, quindi attraverso questo libro ho voluto attraversare anche la fatica, il lavoro che in certi momenti è meditazione, in certi altri è concentrazione, ma che alla fine approda comunque a qualcosa di liberatorio. Il finale, infatti, è un qualcosa che apre, perché l'ambizione istintiva che ha mosso il racconto è l'ambizione a qualcosa che vada al di là della persona, è transpersonale. Ovviamente è il tentativo di risolvere e individuare il nucleo centrale di un individuo che però si rapporta al mondo e anche a qualcosa di più ampio, perché noi siamo parte di qualcosa di molto più ampio.

La protagonista non ha nome perché in realtà la sua ricerca vuole approdare ad un nome, a un qualcosa che sia una connessione tra il nome e la cosa. Il vero nome ce l'ha il protagonista maschile, che poi ha uno spazio apparentemente esiguo, ma che in realtà si trova in un momento clou del libro che è il sogno del tuffatore di Paestum, che non è il famoso dipinto, però ovviamente è ispirato molto, ed è un tutto liberatorio, cioè la possibilità di uscire da questo eterno ritorno che poi è anche la tendenza del protagonista maschile, del padre della donna. Del resto, in origine, tutte le ricerche, tutte le fatiche partono da un trauma, da un bisogno di superare qualcosa, di superare una ferita, e la lacerazione della partenza del padre in senso materiale, ovvero il distacco da questi, ma anche la sua morte che rende inevitabile il distacco, diventa un impulso per qualcosa di positivo.

La storia di "Sempre mai più", al di là della trama, può essere definita come una grande metafora esistenziale?

Sì perché c'è anche un continuo relazionarsi tra l'interno dei protagonisti e l'esterno rappresentato dall'arte, dalla natura, dalla bellezza in generale. I personaggi, muovendosi su un piano di realtà, aspirano comunque ad un assoluto, ad una trascendenza.

Il tema del viaggio, di questi personaggi tendenti ad essere un qualcosa che va oltre la caratterizzazione individuale, potrebbero ricordare "Conversazione in Sicilia" di Elio Vittorini?

No, se penso a Elio Vittorini, penso a "Uomini e no" e ad una caratterizzazione molto precisa, di una particolare epoca storica, anche se qualcosa si potrebbe individuare non come ispirazione, ma in quell'aspirazione della protagonista che, pur non appartenendo alla generazione di chi ha vissuto la Resistenza, però la nomina anche attraverso il riferimento ad alcuni campi, perché in realtà vive dentro di sé, ogni momento, una "resistenza" a quella parte della vita che si oppone alla ricerca, alla scoperta della relazione tra i nomi e le cose su un piano che va oltre il quotidiano che è molto presente nelle piccole cose, però la ricerca è quella della connessione tra le piccole cose e qualcosa che è un mistero, che poi è il mistero della scrittura stessa.

Quindi, per quanto riguarda Elio Vittorini, mi sono venuti in mente dei dialoghi molto forti nella loro densità tra partigiani, non mi viene in mente "Conversazione in Sicilia" in questo momento, e comunque non è stata una mia ispirazione. Come sempre, quando scriviamo, noi siamo intrisi di archetipi, siamo una parte di un tutto anche in questo senso, e sicuramente dentro di noi ci sono dei nessi anche quando non ce ne accorgiamo.

Quanto conta il tema del viaggio nel suo libro?

È fondamentale non solo perché il viaggio è un percorso da un punto A ad un punto che non è inevitabilmente B, ma che prevede intersezioni con mille altri punti, quindi c'entra il viaggio, la geometria, la geografia...

noi siamo condizionati dai luoghi che attraversiamo, che ci attraversano, e la mia esperienza di vita è stata molto di attraversamenti di luoghi, che ho vissuto in determinati momenti con fatica perché comportano uno sradicamento, un distacco dalle abitudini, però ti fanno anche scoprire che c'è quest'infinita dialettica tra l'eterno ritorno e poi la deviazione che a sua volta diventa un altro cerchio, e tutto ciò accade all'infinito. La scoperta passa attraverso la geografia, una geografia che è anche interiore... insomma il confine tra quella interiore ed esteriore è difficile da stabilire.

Come definirebbe il suo romanzo?

Dire che è un romanzo di formazione... alla fine i romanzi sono tendenzialmente di formazione perché c'è un percorso; io direi piuttosto una ricerca esistenziale.

Se poi mi chiede di individuare proprio un genere, in realtà oggi siamo in una fase in cui i generi sono stati superati, ricostruiti, contaminati... nel romanzo, ad esempio, ho inserito anche delle poesie che volevano a loro volta rispecchiare la velleità di chi scrive di toccare l'assoluto con parole che vadano a fondo, che tocchino anche dei temi sociali.

In "Sempre Mai Più", l'incontro con questo "altro" protagonista che compare in una squallida stazione impresenziata nel momento clou dell'incontro della protagonista con l'altro da sé, che poi alla fine è una parte di se stessa, in realtà si muove anche sul piano delle allusioni alla scrittura e la pretesa di scrivere poesie da parte del personaggio maschile è una pretesa che tocca un punto di ricerca a sua volta.

Dunque, sicuramente non siamo di fronte ad un romanzo fatto di contaminazioni, avendo una struttura anche abbastanza "classica" perché c'è addirittura un'unità di tempo che sono i due giorni durante i quali si svolge l'azione. Ovviamente sono due giorni fittizi, perché c'è anche un andare avanti e indietro, quindi il tempo è pure un elemento fondamentale che si sfilaccia, si costruisce di volta in volta. Diciamo che non darei una definizione a priori, perché come autrice mi piacerebbe sentire eventuali ipotesi e definizioni che qualche lettore vorrebbe proporre.

Secondo Lei a chi si può rivolgere principalmente il suo libro?

Questa è la mia curiosità più grande, vorrei proprio scoprire questi lettori!

Sicuramente è un lettore attento al linguaggio, perché il linguaggio per me è la base anche in questo romanzo. Non credo che sia un testo per chi vuole forse passare il tempo senza pensare, perché probabilmente impone qualche riflessione, e delle volte la riflessione è anche leggera, non necessariamente dev'essere qualcosa che t'inchioda. La mia sensazione è che dev'essere un tipo di lettore disposto fin dall'inizio ad entrare in questo spazio che poi si allarga e si distende. Lo trovo difficile per un'età preadolescenziale e sicuramente escluderei l'infanzia. Magari è anche un testo che si può leggere tra le pagine, non necessariamente dall'inizio alla fine, perché è come se ogni frase, anche se apparentemente scivolata, avesse dei mondi all'interno, e questo forse potrebbe interessare anche a ragazzi più giovani, però certamente non è un libro la cui lettura sia consigliabile aprendo le pagine così, secondo una bibliomanzia a caso.

Credo che vada letto dall'inizio alla fine perché è un romanzo che prevede un percorso, un punto di partenza e dei punti di arrivo, degli snodi.

Quanto c'è di autobiografico nel suo romanzo?

Sono stata una bibliotecaria a lungo, quindi ho vissuto in questo mondo dove da un lato si è protetti, e dall'altro però c'è la pretesa di registrare, di catalogare il mondo, quindi è come se la metafora di cui parlavamo prima fosse perfettamente adatta ad una biblioteca che contiene l'interno e l'esterno contemporaneamente, e poi c'è questo trauma originario che è la separazione, è tutto il discorso sul distacco e l'attaccamento che passa attraverso la relazione con mio padre, altrimenti io non avrei visto di "padre in padre".

Però è un qualcosa di talmente sedimentato, è così lontano nel tempo che ad un certo punto rappresentava per me qualcosa di più ampio, che vedo negli altri, quindi dire che sia autobiografico non è proprio esatto.

Sicuramente, come sempre accade, la scrittura parte da cose fondamentali che fanno parte della persona. Il mio bisogno era quello di evolvere un mio punto di dolore.

Questo è il suo primo romanzo: che esperienza è stata per Lei?

Ho scritto delle poesie, dei racconti in raccolte collettive, però questo è il mio primo romanzo. È stata un'esperienza molto forte perché ti fa misurare con l'esigenza di trovare un ritmo più o meno costante ed io non lo sono in generale nella mia vita, però è stato molto importante capire anche i luoghi dove scrivere.

Ho dovuto trovare dei luoghi fuori casa perché non c'era la concentrazione necessaria. Mi è capitato di dover cercare e per fortuna di trovare un posto nella natura, a Ischia, perché volevo avere un contatto con l'assoluto di cui parlavo, perché per me l'aspetto trascendente nella scrittura è molto forte e col romanzo questa cosa l'ho sentita molto.