La pubblicità, nella sua accezione più generale, è l’anima del commercio. Nel corso della storia essa è riuscita a inserirsi all’interno della società e dei suoi costumi, veicolando più linguaggi che, in maniera accattivante, dovevano servire uno scopo; il mercato. Negli anni questa forma di comunicazione si è sempre rinnovata, soprattutto attraverso il contatto con l’arte e i suoi modelli di riferimento: musica, cinema, danza e tutto ciò che necessitava a elevare il semplice prodotto ad un certo grado di “autorevolezza” estetica. Molti sono stati gli attori che hanno prestato la loro immagine al prodotto pubblicitario, molti i grandi registi, che ne hanno firmato almeno uno; da Fellini a Lynch il passo è scandito pienamente.

Forse però molti non sanno che, all’interno di uno spot, era possibile trovare anche artisti lontani anni luce da quel tipo di mondo. Uno di questi è stato Salvador Dalì. Non ci sarebbe poi da meravigliarsi quando si parla di uno dei personaggi più eclettici e poliedrici della storia del ‘900, i cui interessi partivano dalla pittura, per rivolgersi poi alla scultura, al cinema, alla grafica e pare anche alla pubblicità.

Un ennesimo gesto di ribellione alla tradizione del suo tempo

L’eccentrico e dissacrante mentore e icona del movimento surrealista, è stato sempre in qualche maniera ossessionato dalla necessità di innovare il linguaggio, nel momento stesso in cui veniva creato; questo fa di lui non solo un grande precursore artistico del suo tempo e degli anni a venire, ma anche un libero filosofo del XX° secolo, perché costantemente alla ricerca di conoscere e sperimentare le nuove forme espressive che tale momento storico portava con sé, sfruttando anche la propria notorietà e la propria immagine per veicolare i nuovi strumenti di comunicazione al tempo disponibili.

E’ ovvio che il narcisismo del grande artista spagnolo ebbe una grande influenza in questo disegno, poiché egli aveva capito da subito e, prima di molti altri come sfruttare i diversi mezzi di espressione per mettere in risalto il genio artistico e una mai celata bramosia di denaro.

La svolta avviene nel 1936, quando Dalí e Gala si trasferiscono negli Stati Uniti nel 1936, spinti dalla voglia di trovare nuovi territori di espressione artistica.

Fu proprio a New York che Dalì cominciò a mettere la sua fantasia sregolata al servizio del commercio. Passando dagli allestimenti per i centri commerciali, alla pubblicazione di libri di cucina, in compagnia della sua inseparabile “musa”, Dalì sfruttava la sua arte in un territorio mediano, tra la pubblicità, il teatro e le animazioni Disney, sfruttando però quella grande capacità di uomo d’affari controcorrente, che ha fatto di lui, probabilmente il primo brand di se stesso.

È lui a disegnare nel 1969 il logo della “chupa chups ; il tutto durante una pausa caffè in compagnia di Enric Bernat, direttore della ditta produttrice dello storico lecca-lecca. L’incontro definitivo con la pubblicità avviene però, un anno prima, nel 1968, quando Dalì diventa il protagonista satirico ed eccentrico (ex modus in rebus), per lo spot del cioccolato francese “Lanvin”.

Genio e sregolatezza assoluta, non possono non destare l’attenzione in chi ha visto lo spot almeno una volta; non solo la sorpresa di trovare un personaggio così particolare all’interno di un contesto commerciale e popolare, ma la sua completa dimestichezza con il mezzo televisivo e il fine di un prodotto, non votato al godimento estetico, ma più semplicemente al consumo.

"Je suis fou du chocolat Lanvin!" esclama da sotto quegli inconfondibili baffi demoniaci, mentre la IX sinfonia di Beethoven riecheggia tra i monti che fanno da cornice alla scena; il tutto con quell’espressione stralunata e imponente che ne hanno fatto un “marchio di fabbrica”.

La ragione però è da ritrovarsi unicamente in uno spirito curioso: Dalí era affascinato da tutto ciò che era inerente al commercio e alla pubblicità come forma di espressione, ha dedicato del tempo. Fu testimonial anche per Alka Seltzer e Veterano Brandy e la sua intelligenza sopraffina era testimoniata dal fatto di saper unire due mondi che non si sarebbero incontrati mai: non arte e commercio, bensì vecchi e nuovi linguaggi.

Egli seppe sfruttare il suo lato più provocatorio e ricavarne una fonte di reddito enorme, per se stesso e il marchio a cui prestava, o meglio affittava, la sua immagine e oggi, a 50 anni di distanza, quello spot resta probabilmente il più surreale di tutti i tempi.