La notizia, passata praticamente ad edicole e tv unificate, è che il governo italiano guidato da Matteo Renzi martedì scorso abbia messo il veto sull’approvazione del bilancio dell’Unione Europea. Notizia non corretta e, forse, gonfiata ad arte. Quella di Palazzo Chigi, infatti, al momento resta solo una minaccia di porre il veto. Il bilancio dell’Ue viene approvato ogni 7 anni all’unanimità (quello vigente è del 2014 e scadrà nel 2020) da Commissione, Consiglio e Parlamento europei. In seguito, ogni anno, viene consentita qualche modifica sulla quale nessuno Stato membro ha la facoltà di porre il veto.

Nel caso odierno, però, circa due mesi fa, il Parlamento di Strasburgo ha preteso modifiche di peso per le quali è richiesto il voto all’unanimità. Ed è in questa fessura giuridica che si è inserito il giochetto diplomatico dell’Italia, rappresentata dal sottosegretario agli Affari Europei Sandro Gozi. Una tattica tricolore di ‘fare ammuina’ già vista in passato.

I titoli ingannevoli dei giornali

‘Il veto italiano a Bruxelles’ (Corriere della Sera); ‘L’Italia gela Bruxelles, veto sul bilancio Ue, Renzi: traditi i patti’ (La Repubblica); ‘Renzi: basta soldi a questa Europa. Veto italiano al bilancio Ue’ (La Stampa); ‘Bilancio Ue, il veto di Renzi’ (Il Messaggero); ‘L’Italia stoppa il bilancio della Ue’ (L’Unità).

Titoli scorretti perché, come già accennato, l’Italia non ha posto il veto sul bilancio Ue, ma ha solo minacciato di farlo. Dunque, l’unica minaccia italiana attuabile sarebbe quella di bloccare il ritocco al bilancio come chiede il Parlamento (che tra l’altro chiede 2,5 miliardi in più per controllare i flussi migratori). Comunque sia, se ne dovrebbe riparlare solo dopo il 4 dicembre, giorno del referendum costituzionale nel nostro paese.

Il sottosegretario Sandro Gozi ha dichiarato che “con i nostri soldi si alzano i muri”, ma il suo è un bluff perché l’Italia, di fatto, ha posto solo una riserva sulla revisione di medio termine del bilancio pluriennale.

Le precedenti giravolte di Renzi

Era già successo che il governo italiano facesse finta di alzare la voce con Bruxelles per motivi di politica interna (oggi è il caso della campagna elettorale per il referendum).

Circa un anno fa, Renzi cercò di opporsi alla decisione di stanziare 3 mld per la Turchia al fine di sigillare la rotta balcanica dei migranti. “Il nostro contributo deve essere scorporato dal deficit”, disse, ma si rimangiò la parola dopo un vertice tenuto a Berlino con Angela Merkel. Stessa scena a gennaio, quando la furibonda lite con Jean Claude Juncker finì a ‘tarallucci e vino’ con un allargamento dell’elastico della flessibilità Ue sui conti italiani. È ancora vivido anche il ricordo del vertice settembrino di Bratislava dove il premier di Rignano minacciò fuoco e fiamme, venne escluso dalla conferenza stampa congiunta Merkel-Hollande, ma, alla fine, fu costretto a firmare la dichiarazione conclusiva.

Anche sul Ceta (il trattato di libero scambio tra Ue e Canada bloccato per un mese dalla Vallonia) il governo di Roma fu l’unico a sposare la tesi di Bruxelles sulla inutilità del voto dei singoli parlamenti nazionali.