La struttura della nostra previdenza, così come è oggi, penalizza le donne nel momento in cui devono andare in pensione. Uno studio durato 12 mesi, avviato dalla Commissione Lavoro della Camera ha evidenziato le disparità presenti nel nostro sistema quando si tratta di mandare in pensione una donna o un uomo. In gergo tecnico, si definisce impatto in termini di genere delle norme previdenziali. Le recenti discussioni negli incontri tra Governo e parti sociali, hanno affrontato, anche se solo sfiorandolo, questo argomento. L’apertura del Governo sui temi previdenziali dimostrata in tutti questi incontri, ha spinto l’Onorevole Gnecchi, rappresentante della Commissione Lavoro di Damiano, a presentare i correttivi al Governo.

La colpa è delle carriere al femminile

Attenuare le differenze tra maschi e femmine, soprattutto quelle che determinano redditi pensionistici più bassi per le pensionate in gonnella rispetto ai colleghi maschi: questo è uno dei problemi previdenziali cheDamiano ha ribadito dovesseessere affrontato. I motivi di questa disparità sono sempre gli stessi: le carriere discontinue a cui spesso sono costrette le donne, le maternità ed i lavori di cura della famiglia. La continuità lavorativa di un uomo non può certo essere paragonata a quella di una donna proprio per via delle differenze di genere. Una lavoratrice spesso lascia il lavoro per partorire i propri figli, o lo lascia per le urgenze della vita domestica.

Tutti questi sono i fattori che vanno attenuati attraverso la creazione di apposite misure. Ancora di più oggi perché è già previsto che dal 2018 l’età minima per la pensione di vecchiaia per le donne salirà di un anno, equiparandosi agli uomini e fissandosi a 66 anni e 7 mesi. Inoltre, se non si cambia la Legge Fornero, per le donne che non avevano contributi prima del 1996, il rischio serio è che si perdano altri 3 anni.

Questo per il limite di 1.5 volte l’assegno sociale, cioè l’ammontare della pensione per queste lavoratrici non può scendere sotto quella soglia per essere concessa. E questo, proprio per via delle carriere discontinue e quindi con redditi ridotti, non è una eventualità rara.

Le soluzioni ci sono e possono essere molteplici

È di oltre 20 anni fa l’unico intervento normativo che puntava a ridurre questa anomalia del sistema.

Si tratta della Legge 335 del 1995 da cui la Gnecchi parte per la sua soluzione. Secondo la parlamentare si tratta di valorizzare tutte le misure che prevedeva quella Legge, soprattutto quelle relative ai contributi figurativi da accreditare in maniera maggiore alle donne nei casi di maternità, malattia dei figli, cura delle invalidità e così via. Si può anche trarre indicazione da altri paesi della Unione Europea, rispetto ai quali l’Italia è meno aperta a questi istituti. Bisogna riconoscere in primo luogo i periodi di maternità o di altre esigenze come contributi figurativi, anche al di fuori del rapporto di lavoro dipendente, cioè anche quando una lavoratrice risulti disoccupata e inoccupata.

La Commissione, in alternativa alla previdenza figurativa, punterebbe anche su soluzioni diverse. Una di queste è quella relativa alla contribuzione effettiva sulla quale poi viene calcolata e corrisposta la pensione. Il calcolo contributivo eroga un assegno basato sull’intera vita lavorativa, sulla media dei contributi versati durante i periodi di lavoro. Si potrebbe ovviare a questo prendendo in considerazione solo i periodi dove le lavoratrici avevano redditi di lavoro più alti, escludendo dal calcolo quelli a zero o poco più, che poi sono quelli in cui la lavoratrice si è assentata dal lavoro per le motivazioni di cui parlavamo in precedenza. Questa per esempio è una via utilizzata nel Regno Unito per restare all’Europa o in Canada. Aumentare le maggiorazioni sociali per le donne (ma in questo caso anche per gli uomini) alle prese con la cura dei familiari invalidi o dei figli, sul modello francese.