La riforma della Pubblica Amministrazione può dirsi completata con il Consiglio dei Ministri che ha approvato in via definita le norme attuative con le nuove regole per i dipendenti statali. Cambia tutto, a partire dalle regole sulla valutazione dei dipendenti, al licenziamento se valutati negativamente per tre anni di fila. Completata anche la riduzione da 11 a 4 comparti, adesso rimangono da completare “solo” la stabilizzazione di oltre 50 mila i precari, il trasloco delle visite fiscali all’Inps ed il rinnovo del contratto. Per quest’ultimo punto, per fine giungo dovrebbe essere emanata la direttiva che poi l’Aran, l’Agenzia per la contrattazione incaricata dalla Madia, utilizzerà al tavolo della trattativa con i sindacati.

Rinnovo a partire dal 2016

Una cosa che trapela, come riporta il noto portale del comparto scuola, cioè “Orizzontescuola.it”, è che il rinnovo del contratto sarà a partire dal 2016. Un effetto retroattivo anche se i sindacati dovrebbero tornare a spingere per spostarlo indietro nel tempo, cioè almeno a luglio 2015. Questo perché è proprio nel 2015 che la Corte Costituzionale sancì la bocciatura e quindi l’incostituzionalità del blocco della perequazione per gli stipendi dei lavoratori pubblici introdotto dalla Fornero. Infatti è da allora che il Governo risulta essere obbligato a predisporre lo sblocco del contratto ed i relativi aumenti. Un contratto fermo da 8 anni, periodo in cui manca nelle tasche dei lavoratori anche il 30% di aumento rispetto al tasso di inflazione annuale, come prevede la vacanza contrattuale.

Un danno economico e reddituale che si protrae nel tempo e che continua a sortire effetti. Un danno che i sindacati quantificano in 10mila euro a lavoratore, cifra che naturalmente non potrà essere risarcita ai lavoratori. Resta comunque l’apertura a valutare lo sblocco retroattivo dal 2016, ma di sole 10 euro al mese. Per il 2017 invece, la cifra salirebbe a 40 euro, parlando sempre di lordo e non di netto in busta.

Che fine hanno fatto gli 85 euro dell’accordo di novembre

A riforma non ancora completata, lo scorso novembre, sindacati e Governo si erano lasciati su una cifra media di aumenti pari ad 85 euro lordi a lavoratore. Già sul principio di netto e lordo c’erano state divergenze che sarebbero dovute essere sanate con l’avvio delle trattative.

Dalle indiscrezioni sulla direttiva sembra che il Governo non si smuoverà da quella cifra e soprattutto, dal considerarla al lordo delle tasse da pagare. Un altro cavillo inoltre sarebbe il meccanismo di erogazione degli aumenti, che non sarebbe a macchia d’olio ma medio, cioè differente da un lavoratore all’altro. Cosa verrà utilizzato per valutare e differenziare gli aumenti ai lavoratori è un parametro che sicuramente sarà centrale nelle trattative. Sarà anche in questo caso la valutazione ad essere primo criterio o caso mai la situazione reddituale dei lavoratori? Resta il fatto che gli 85 euro al mese non sono un problema immediato per il Governo, perché i soldi disponibili e stanziati dalla Legge di Bilancio e poi dal Def e dalla manovrina, servono a mala pena a coprire gli aumenti previsti per il 2016 (10 euro al mese cadauno) e per il 2017 (40 euro). sarà nella prossima Legge di Stabilità di fine 2017 che si stanzieranno altri soldi alla voce rinnovo del contratto.