Sono passati i tempi dei grandi contratti nazionali. Le imprese che occupavano migliaia di dipendenti, Falck, Marelli, Breda, Montediso,  hanno chiuso i battenti e cessato la produzione. Le città operaie, Sesto San Giovanni, Rogoredo, sono profondamente mutate nel tessuto sociale. Le aree industriali dismesse hanno lasciato il campo alle speculazioni edilizie.

Era il bacino dove le confederazioni sindacali trovavano i loro iscritti e ottenevano consenso, pilotando vertenze e contratti settoriali. Il contesto produttivo è cambiato, si è settorializzato nei servizi, nella media e piccola impresa, dove il sindacato ha meno presa.

Poi esiste una disoccupazione rabbiosa che lo trova impotente.

Così ha dovuto cambiare, fare propri temi politici generali, pur sempre imperniati sul lavoro. In pratica sembra essere diventato una "sponda" di partiti. Ridotto nel suo ruolo e nella sua identità, il sindacato appare confuso. Conserva il dialogo con istituzioni e governo, ma appaiono rapporti "formali". Non dice niente di diverso da una formazione politica, da cui prima voleva distinguersi. Partecipa alle manifestazioni e incassa fischi o indifferenza.

I conflitti tra le tre maggiori confederazioni ne hanno minato la credibilità. E' apparso evidente nell'ultima vicenda Fiat e in altre vertenze in cui si è arrivati ad accordi separati.

Problemi che investono anche la sua controparte per antonomasia, l'associazione industriali. Questa ha implementato il suo ruolo di lobby, funzione che ha sempre avuto. Ora tocca al sindacato decidere come dimensionarsi nel "post industriale".