In questi ultimi giorni la notizia che più fa discutere il mondo è il paventato intervento armato degli Stati Uniti in Siria. Il conflitto siriano, complesso e cruento, ha assunto connotati a dir poco spaventosi.

Il bilancio attuale e sfortunatamente provvisorio è tremendo: più di 100.000 morti, fra cui molte donne e bambini; città completamente devastate dalla furia degli scontri; economia a pezzi; annullamento dei più basilari diritti umani e civili.

Ad aggravare la situazione si è aggiunto (senza saperne attribuire la responsabilità con certezza) l'uso di armi chimiche sui civili.

Uno scenario disperante, che pone molti interrogativi su come sia possibile fermare l'orrore. Dall'inizio del conflitto (2011) ad oggi la diplomazia internazionale non ha dato risposte adeguate per la risoluzione del conflitto; al contrario, la guerra civile siriana è stata, se non proprio ignorata, quantomeno sottovalutata, portando ad una veloce degenerazione.

All'inizio considerata una primavera araba contro un regime tirannico, oggi non si distinguono più chiaramente tutte le dinamiche e nei gruppi combattenti. Per questo ora, quando il tessuto siriano è irrimediabilmente lacerato dallo scontro e il dialogo sembra sempre più difficile, l'unica soluzione praticabile sembra essere quella armata.

Soluzione sicuramente più comoda, visto che si preferisce usare una chimerica "forza giusta delle armi" piuttosto che impegnarsi, magari faticosamente, nel dialogo.

Ma questa tendenza a cosa ha portato negli anni? Primo Levi, in un suo celebre libro, scrisse: "chi non ha memoria del passato è costretto a riviverlo". Oggi la diplomazia internazionale non solo sembrano aver perduto la memoria del passato, ma addirittura aver dimenticato del tutto gli accadimenti degli ultimi anni.

Infatti gli interventi armati in Iraq ed Afghanistan avrebbero dovuto insegnare come la pace imposta con le armi non solo non sia duratura, ma provochi enormi squilibri tali da creare danni ancora maggiori.

La diplomazia internazionale ha coniato in questi anni molti termini per giustificare la necessità di un intervento armato.

Guerra preventiva, guerra giusta, esportazione di democrazia, guerra di pace, guerra necessaria. In verità ha cercato di mascherare ipocritamente un concetto brutale come l'intervento armato spesso per fini economici. L'unica voce fuori dal coro, che in questi ultimi giorni ha provato a dare un indirizzo diverso dal silenzio complice ed interessato della diplomazia internazionale, è quella di Papa Francesco. Con l'indizione per il 7 settembre di una giornata di digiuno e di preghiera per la Siria, il Medio Oriente e ogni luogo in cui si combatte il Papa ha voluto dare un segno forte, alternativo alla logica dominante, profondamente in controtendenza.

Più di 100.000 persone (tra cui una delegazione musulmana) hanno partecipato al lungo momento penitenziale in Piazza San Pietro.

Non si è trattato solo un gesto simbolico; al contrario, ha dimostrato come nella coscienza di tante persone ci sia il desiderio di una pace vera.

Il gesto si è caricato di una grande valenza politica (dimostrando come il Papa riesca a fare politica con la forza delle preghiera) perché rivolto a tutti i grandi della terra che in questo frangente sono chiamati a decidere le sorti della Siria. Sabato scorso è partito un messaggio molto forte di pace, che non potrà (ci auguriamo) essere ignorato.

Si è aperto un nuovo spiraglio di riflessione su come portare una pace giusta ed efficace. Non sappiamo se il gesto avrà l'esito sperato; purtroppo, come ricordava il Papa stesso, dietro questo attacco sono mascherati molti interessi economici.

Almeno nell'immediato ha sicuramente gettato il seme di una nuova diplomazia, destinato a germogliare; questo seme deve essere arricchito per fruttificare con la partecipazione di tutti, ciascuno nella propria misura. Infatti, il secondo, essenziale messaggio che sabato scorso si è alzato da piazza San Pietro è quello che nessuno è inutile. Al contrario: l'interesse, l'azione e la preghiera di tutti sono indispensabili per orientare le decisioni politiche, soprattutto in un periodo in cui mancano quasi del tutto passioni e valori universali.