In questi giorni cresce la protesta del Popolo delle Partite Iva. E' composto da circa 3 milioni di persone che svolgono la loro attività come lavoratori autonomi, scelta che sottintende professionalità e intento di svolgere il proprio lavoro a favore di più clienti accollandosi la responsabilità del proprio fare.

In questi anni però molti sono stati indotti per necessità ad aprire la partita Iva pur lavorando per un numero ridotto di committenti se non gli stessi presso i quali precedentemente risultavano lavoratori dipendenti. Il Popolo lamenta l'eccessivo peso di imposte e contributi dovuti sul reddito.

Proprio per oggi era previsto un incontro tra A.c.t.a. (Associazione Consulenti Terziario Avanzato) ed il viceministro Fassina per la consegna delle oltre 12000 firme raccolte per la campagna DicaNo33, riguardante la richiesta di evitare il previsto aumento al 33% del contributo previdenziale Inps. Vedremo cosa succederà.

In molti degli articoli che viaggiano sul web si trova spesso, come elemento di confronto per evidenziare il troppo elevato carico previdenziale, l'accostamento con i redditi di lavoro dipendente.

Si legge per esempio su un articolo del Corriere della Sera: "Anche i lavoratori dipendenti versano il 33% ma la categoria dei lavoratori autonomi sottolinea che c'è una netta differenza sul calcolo dell'aliquota: il 33% che versano i dipendenti è calcolato sul reddito lordo annuo, mentre quello dei lavoratori indipendenti è calcolato sul totale costo del lavoro".

E ancora sul sito La Mia Partita Iva: "hanno deciso di tassare le partite Iva senza ordine applicando la stessa aliquota che pagano i lavoratori dipendenti, i quali anche se versano una montagna di denaro nelle casse dell'Inps, almeno possono contare sullo stipendio garantito alla fine del mese".

Questo piano di confronto stimola alcune considerazioni.

La prima: che il lavoro autonomo sia diventato un'alternativa al lavoro dipendente e sia dettato da una necessità non deve far perdere di vista il senso delle cose, e cioè che lavorare in proprio deve prevedere scelta consapevole, professionalità, tenacia, sviluppo delle proprie competenze e della propria clientela, autonomia, responsabilità dei risultati, e raffrontarlo con il lavoro dipendente legittima il rafforzarsi dell'idea che sia una strada parallela che invece non è.

Sarebbe importante trasformare l'unica possibilità in opportunità, capace di sviluppare attitudini e tenacia nell'intraprendere un percorso professionale tutto nuovo con cui scoprire magari il proprio talento, perché no?

La seconda: i lavoratori dipendenti percepiscono uno stipendio che viene eroso dai costi che sostengono per il raggiungimento del posto di lavoro, quali benzina, mezzi di trasporto, che rimangono totalmente a loro carico, mentre i lavoratori autonomi possono portare in deduzione parte dell'affitto della loro abitazione e delle relative utenze se la loro casa risulta sede dell'attività e parte dei costi per l'automezzo. Inoltre, i contributi previdenziali pagati diventano oneri deducibili nella dichiarazione dei redditi ed hanno diritto ad addebitare al cliente (diritto di rivalsa) un 4% sul fatturato a titolo di contributo previdenziale.

Questo confronto vale solo per chi rientra nei lavoratori autonomi non per scelta e che di fatto lavora per uno o per pochi attendendo una chiamata.

E quindi arriva l'ultima: non sarebbe più incisiva e giusta una protesta forte solo delle proprie motivazioni senza tirare in ballo azzardati paralleli?

In conclusione, io per prima non sminuisco il peso che grava sul lavoro in proprio, e attribuisco tutto il valore che ha e può portare, contribuendo in modo significativo alla ricchezza del Paese anche creando posti di lavoro se minori imposte e contributi lasciassero spazio a progetti e investimenti, ma il confronto con il lavoro dipendente è proprio una leva debole ed un errore.