A margine dell'approvazione della trimestrale luglio-settembre 2013, David A. Ebersman, chief financial officer di Facebook, ha ammesso "una diminuzione degli utenti giornalieri, in particolare tra gli adolescenti più giovani". In particolare ha fatto notare un calo delle visite quotidiane al sito da parte dei teenager i quali, nonostante il mantenimento dell'account, hanno controllato il profilo meno spesso.

Una dichiarazione sorprendente, non foss'altro perchè il colosso di Menlo Park ha a lungo negato che l'interesse degli iscritti stesse scemando. Beninteso, si tratta di un "riconoscimento" non supportato da dati numerici ma le parole di Ebersman hanno confermato che il servizio sta via via diventando meno attraente tra il pubblico; un sospetto che in verità serpeggiava tra utenti ed analisti finanziari, ma che nessuno era in grado di dimostrare. Forse, sebbene Facebook continui ad essere il social network di default per la community, non è poi così importante per la sopravvivenza sociale.

Può sembrare paradossale che stia perdendo parte del suo vantaggio proprio quando è diventato un linguaggio universale. Una spiegazione può essere la sua progressiva trasposizione da programma di utilità che aiuta a rimanere in contatto con le persone della nostra vita a "centro commerciale" del web nel quale la comunità più che aprirsi si chiude non trovando niente di meglio da fare online. Facebook si sta trasformando in un romanzo che cala d'interesse col suo evolversi o, se si preferisce, in un attore che ha perso il cachet che l'ha reso attraente perchè non suscita emozioni, come non potrebbe suscitarne una relazione umana virtuale. Fa vivere di contatti, ma lascia morire i rapporti.

Sia chiaro, nessuno prefigura la morte imminente del giocattolo di Zuckerberg. D'altronde, 1,2 miliardi di "clienti" sono una cifra niente male. Può essere positiva per l'azienda una piccola crisi di mezza età, una scossa di assestamento che le faccia irrobustire il proposito di tenere il mondo interconnesso proprio mentre la concorrenza - leggasi Twitter, ma non solo - sta battagliando sempre più agguerrita. Quello che ancora non è dato sapere è quanti autoscatti, pavoneggiamenti, foto sorridenti di pasti, animali domestici, divagazioni narcisistiche e sequela di minuzie dobbiamo ancora vedere. Magari oltre all'account e alla privacy si potrebbe impostare un filtro all'idiozia.

Facebook rimane indubbiamente uno strumento utilissimo, un potente farmaco comunicativo, se dosato con saggezza. Può arricchire se costituisce autenticamente qualcosa di diverso fra i suoi innumerevoli utenti e gruppi. Può essere una leva di conoscenza, una robusta rete sociale in tempo reale. Un uso eccessivo può invece provocare effetti collaterali: virtualizza la realtà, fa scomparire l'identità in un brand, trasforma la soggettività degli uomini da anime del soggiorno di casa a oggetti del ripostiglio. Un non-luogo, allo stesso tempo, esecutivo di check-in e check-out, di comando e controllo che altri stiano facendo la stessa cosa. Una persona non pensa, non è più, cartesianamenente parlando. Diventa un avatar di ciò che crede essere. Col risultato di perdere tempo in un ambiente fittizio, confortevole e in qualche modo piacevole, credendo di guadagnarne. Un prezzo troppo caro, troppo costoso in termini di interazione sociale.

All'inizio può essere divertente fare il detective globale e scoprire che fine hanno fatto i vecchi amici; è utile a stimolare la curiosità e, perchè no, ad apparire con un pizzico di sano narcisismo. Poi però diventa una prigione che crea dipendenza, un piccolo mondo dal quale si sbircia da uno spioncino su tutti ma in cui si perde di vista il quadro generale, il vero mondo che si apre davanti a noi.