Nella mente di ogni autentico appassionato di sport le Olimpiadi invernali di Lillehammer, nel 1994, vengono ricordati come i più belli di sempre. Nel giudizio di chi scrive sono stati i migliori in assoluto, estive comprese. Mai una sola edizione era stata baciata, come quella norvegese, da gare tanto tirate, episodi commoventi, rivalità esasperate e abbracci fraterni, dal calore della gente e dei tifosi locali, sportivi fino all'inverosimile, da lacrime sincere che trasformano in un istante lo stupore in sogno che diventa realtà o solo nella gioia di aver partecipato. Se c'è stato un posto in cui lo spirito olimpico di De Coubertain si è incarnato alla perfezione, questo è stato proprio Lillehammer. Sarà stato lo scenario magico di una piccola cittadina ammantata di coltre bianca, poco più che un villaggio di casette intorno a una strada, circondata da neve e da ghiaccio, pianure di betulle e montagne di pini. O magari la voglia di far festa dopo la guerra fredda, le bandierine della patria dello sci, lo sfasamento biennale dopo Albertville che raddoppiò gli sforzi degli atleti, il silenzio dedicato al popolo bosniaco assediato durante la cerimonia inaugurale, il magnifico inno ossimorico, "Fuoco nel tuo cuore". Chissà...

Fatto sta che Lillehammer fu la sede ideale dei giochi d'inverno intesi nel senso più tradizionale del termine. Un'edizione stupenda, preparata nei minimi dettagli, che sorprese e commosse il mondo con sprechi ridotti al minimo, paesaggi mozzafiato di boschi innevati, montagne e laghi, centinaia di migliaia di persone che viaggiavano la notte per vedere le gare e ripartivano la sera, giovani e meno giovani che scendevano dai treni zainetto in spalla e scivolavano sul ghiaccio, felici come bambini. Di una benaugurante nevicata iniziale e di un sole splendente per due settimane. Di una popolazione itinerante e competente che tributava applausi per tutti. La trama perfetta di un film a lieto fine che solo il sudore perlato della neve sa regalare. Pochissimi sacrifici di alberi, riciclo diffuso, le pallottole del biathlon recuperate per evitare l'avvelenamento degli uccellini, saghe, miti e leggende di personaggi sempre nuovi, coccolati nella casa madre degli sport bianchi che trasforma sci e pattini da mezzi di sopravvivenza in strumenti di festa.

Lillehammer furono le favole a lieto fine di Dan Jansen e Nancy Kerrigan. Di medaglie che volano, nella gara meno attesa, fino al cuore di una sorella morta di leucemia il giorno stesso. Di una fondazione nata proprio allora dal motto più significativo di tante parole: "Give is gold", dare è oro. E di una pattinatrice bellissima, leggiadra sui pattini e dal carattere solare più forte perfino dell'aggressione di un nerboruto omaccione che, per conto di una rivale bruttina e diversa in tutto, Tonya Harding, la prende a bastonate. Il giorno del programma corto, Nancy Kerrigan danza incantevole diventando la fidanzatina d'America; vola al primo posto fino all'esibizione di una piccola ucraina, Oksana Banjul, che la priverà dell'oro in un verdetto molto contestato.

Lillehammer fu la storia del triplice campione di casa di pattinaggio di velocità, Olav Koss, che devorrà ai bambini bosniaci l'intera somma dei premi vinti alle Olimpiadi. E perchè no, dell'equipaggio di bob di Trinidad e Tobago che, giunto sprovveduto in jeans e t-shirt all'aeroporto di Oslo, finì per ammalarsi ma gareggiò comunque.

Lillehammer furono le imprese di un'Italia straordinaria, quarta nel medagliere finale, davanti perfino agli americani. 20 medaglie in 67 gare, delle quali sette d'oro, bottino mai eguagliato. Fu il sorriso senza fatica, la gioia d'oro dopo la 30 km tc di Manuela di Centa, nostra mattatrice con 5 medaglie, l'eleganza di Deborah Compagnoni ad appena due anni dall'urlo di dolore in Francia, la rimonta incredibile di Alberto Tomba perchè, dopo Calgary in Alberta e Albertville, anche Lillehammer doveva avere una ragione.

Lillehammer fu, forse, il ricordo più bello nella storia dello sport azzurro. La filastrocca Fauner-Vanzetta-Albarello-De Zolt. Il 22 febbraio 1994, davanti a quasi duecentomila bandierine norvegesi, ai padroni di casa, nel loro sport, nel loro tempio di Holmenkollen, battendo in volata la staffetta più forte che sia mai esistita, il più grande di tutti i tempi, il mitico Bjorn Daehlie, nella gara più importante, dei giochi più belli, ci siamo sentiti tutti tanto orgogliosi di essere italiani. Il ricordo personale è una "diserzione" scolastica e una gioia indescrivibile davanti alla tv che mostrava il passo felpato dell'azzurro (Silvio Fauner ndr), la zampata finale, quattro moschettieri italiani, l'urlo nordico strozzato in gola, il silenzio tombale di un pubblico impietrito, re Harold che abbandonava sconsolato la premiazione e lo sportivissimo applauso finale dei tifosi di casa. 

Storie indimenticabili di vent'anni fa. Storie di emozioni e brividi certo non dovuti al freddo. Storie di uno sport e di un'Italia che, forse, non esistono più.