Alcune date squarciano la storia. Sono momenti che frantumano sicurezze, coscienze collettive, anni che riassumono rivoluzioni secolari, eventi messianici che spezzano la temporalità in un prima e un dopo. Il 1914 fu tutto questo e molto altro. Come scrisse qualcuno, "nulla fu più come prima".

Iniziò solo allora il Novecento, quel "secolo breve" descritto dallo storico inglese Eric Hobswam, caratterizzato dall'avvento sulla scena politica delle masse popolari grazie alla concessione del diritto di voto a suffragio universale. Ceti medi e rurali che salirono improvvisamente sul palcoscenico della politica attiva senza alcuna formazione di riferimento, una vera coscienza responsabile, senza una graduale preparazione all'esercizio del potere nelle democrazie parlamentari.

Fu un anno funesto, secondo tutti, il 1914. Si portò con sè, dopo soli 44 anni di vita, la "Belle Epoque". Non più carrozze, cocchieri, cavalli, pizzi, merletti, prime teatrali, serate di gala, balli di corte, dame eleganti ma trincee scavate nel fango, fili spinati, campi minati. Moriva una società che sarebbe apparsa alle generazioni successive come benedetta da un'età dell'oro. Si spensero le luci a Parigi, Londra, Vienna, Budapest, Berlino. Le città-vetrina del Vecchio e di quel vecchio mondo con tutta quella variegata gamma di espressioni, dai fenomeni di costume sociale - i caffè-concerto, le gare sportive, i voli in aeroplano, i grandi magazzini -, a quelli dell'espressione artistica, il teatro, l'opera, il cinema dei fratelli Lumière, i pittori impressionisti.

Moriva l'Europa come centro del mondo e faro della civiltà universale. Scese dal trono ritirandosi nei suoi piccoli salotti nobili, ma lasciando orme ben visibili ovunque, tracce linguistiche, modi di vivere, modi di fare, cimeli museali come oggetti preziosi appena sfuggiti di mano e portandosi con sè spezie esotiche, profumi di terre lontane, costumi di mondi misteriosi, il ricordo di imperi coloniali persi come un vecchio cui mancano i capelli e la forza della gioventù.

Troppo più grande di una Nazione e troppo più piccola del mondo intero, forse.

A scuola era un grande spartiacque, il 1914. Iniziava solo allora, con la Grande Guerra, l'ultimo quadrimestre, o l'ultimo anno di storia. Esattamente dal 28 giugno 1914, da quando l'arciduca erede al trono dell'Impero d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este e la moglie Sofia duchessa di Hohenberg vennero assassinati da un nazionalista serbo, Gavrilo Princip.

L'Austria da Impero millenario diverrà, dopo soli quattro anni, una piccola e ininfluente, seppur ancora oggi benestante, repubblica.

Si concludeva un'eta gaudente, iniziava la carneficina. Cadevano come mosche ragazzi adolescenti, quelli del '99. Si spegneva la vita, la cultura. I Caffe, da luoghi di fermento, crogiolo di incontri letterari, scambi culturali e artistici si trasformeranno a tal punto da diventare i frettolosi bar del giorno d'oggi. Sparirà davvero una "fin de siecle" che l'Europa voleva non finisse mai, con le sale da tè dell'Inghilterra vittoriana ed edwardiana, i piaceri dannunziani, l'edonismo della vita mondana, dei colori dei manifesti pubblicitari, delle vetrine con merci d'ogni tipo.

Scomparve quello slancio creativo che trasformava ogni produzione umana in espressione artistica, ogni oggetto anonimo in un'elegante decorazione, in un motivo floreale, in una linea curva e arabesca. Tecnologia e scienza non venivano più usate per allungare e migliore la vita degli uomini ma per spezzarla, per creare armi, cannoni, navi da guerra. 

Eppure... Eppure, il campo minato era già stato ampiamente preparato, e l'Europa lo calpestò in pieno. Il 1914 mise in realtà fine ad un'ipocrisia. Il nostro ricordo dei quarantaquattro anni decorsi dal 1871 è in realtà legato più a caratteri sociali e di costume che ad avvenimenti politici e storici.  Fu la stessa epoca della revanche francese, dell'affare Dreyfuss, del cruento conflitto anglo-boero, o cino-giapponese, o ispano-americano, della disfatta italiana di Adua, dell'eccidio di Bava Beccaris a Milano, del regicidio di Umberto I, dell'assassinio dell'amatissima principessa Sissi e, sinistro avvertimento, del naufragio del Titanic.

Come dire, si nascose la polvere, sotto lussuosi tappeti. Non ci sono solo buoni o solo cattivi, come non esistono periodi del tutto felici o totalmente da screditare. Gioie e rimpianti sono ciclici nella storia. Possono e devono segnare la fine di un mondo, non del mondo.

Eppure, dal 1914, le donne non furono più costrette a sopportare scomodi e dolorosi sistemi di contenimento, corpetti, busti, corsetti, perfino stecche di balena. Una ricca ereditiera newyorchese, Mary Phelps Jacobs, brevettò il primo modello di reggiseno della storia. "Limitare i disagi delle donne senza rinunciare alla bellezza femminile" era il motto. Senz'altro è riuscita nel suo intento.

Eppure, nel 1914, partì dall'Inghilterra la spedizione dell'Endurance, con a capo Sir Ernest Henry Shackleton, che fu senz'altro la più assurda, emozionante missione esplorativa del XX secolo.

La straordinaria avventura di 28 uomini dispersi sulla banchisa del mare di Weddel, adiacente al continente antartico, senzà la radio, senza più cibo, senza aiuti, senza la nave per tornare indietro. Un grandissimo inno alla sopravvivenza, una lezione di vita senza pari. Vennero salvati due anni più tardi, proprio mentre in Europa, a Verdun, centinaia di migliaia di anime combattevano, soffrivano e perivano nel sangue.

Per me, il 1914, è la figura di mia nonna che quell'anno nacque, una donna meravigliosa cui devo tutto. Tutto. Qualsiasi cosa. Non ha partecipato alla sfrenata allegria della Belle Epoque e, forse, come tutti coloro che non avevano vissuto gli anni prima di una rivoluzione non poteva capire cosa fosse la dolcezza del vivere.

Solo sacrifici, tanti, e amore. Non è arrivata, non per molto, a celebrare il suo secolo come il nostro 1914. Ma io non voglio coltivare la nostalgia della sua scomparsa nel centenario della sua nascita. Quando la sogno, o la ritrovo davanti agli occhi, vedo solo vita.

E allora, buon centenario, 1914.