Certe volte, più di ogni altra cosa, sono i nomi che sanno rappresentare, rievocandolo, lo stato d'animo surreale che si vive di fronte ad una esperienza emotivamente inspiegabile e triste. E allora proviamo così: Bianca e Fernando, Maria Cristina e Carlo Felice, Carlo Barabino e Angelo Sibilla, Fabio Reinhart, Ignazio Gardella e Aldo Rossi e ancora Teresa Stoltz e Giuseppe Verdi, e ci fermiamo. Sono una piccola parte di coloro che hanno provato a spegnere la infelicità di un teatro, Il Carlo Felice di Genova, tra i più famosi al mondo per bellezza, con una acustica straordinaria, composto da maestranze dal profilo professionale altissimo, e che, salvo improvvisi colpi di scena, quest'anno non avrà neanche la dignità di potersi presentare con un cartellone.

Sindacati sul piede di guerra, sovrintendente sotto accusa, Sindaco impotente, banche assenti e sopratutto tessuto imprenditoriale completamente inesistente.

Considerazioni da uomo di strada con lo sguardo rivolto al mondo digitale: provate a digitare Carlo Felice su un qualsiasi dei social di condivisione foto, o filmati o post etc etc appare subito, prima ancora del Re che gli diede il nome, il teatro e le sue vicissitudini, la sua drammatica storia, il suo incredibile tormento. Ebbene viviamo ormai in una città, all'interno di una regione che compone un Paese incapace di preservare la sua stessa storia, i suoi ricordi, la sua vita, viviamo in un Paese in cui mancano talvolta le elementari associazioni e interazioni tra cultura e marketing, storia e futuro, atmosfera e contenuto altissimo, si parla di brand, di eccellenza, di made in Italy e poi al momento di agire tutti guardano al proprio orticello, e non si espongono, non peccano più, ma il dato più triste, è che questo orticello è persino mal guardato perché impedisce con la sua stretta visuale a cogliere persino le elementari , lampanti ricadute economiche e di immagine di cui beneficerebbe un eventuale "Salvatore della patria", sia che decida di operare da solo sia in che decida di operare con altri.

Chi vi scrive appartiene al mondo della comunicazione, e comprende a livello di principi base quanto possa essere grave e vergognosa una situazione del genere, e quanto oramai siano irrecuperabili i danni di questa inspiegabile inerzia. Fino a qualche tempo fa si sosteneva, e forse in parte era vero, che i percorsi culturali e formativi delle persone che svolgono attività artistica e amministrativa all'interno di una grande realtà culturale fossero di solito molto diversi da quelli di chi opera nell'ambito del marketing con la conseguenza di linguaggi, procedure, meccanismi di trasferimento delle conoscenze e stili di leadership molto differenti e spesso antitetici rispetto al mondo dell'impresa, con la conseguenza di una impermeabilità del mondo culturale ai principi basilari della comunicazione d'impresa, ciò non è più vero.

Oramai gli artisti e i responsabili del settore non temono più le ingerenze del mondo dell'impresa e conoscono ancor più degli stessi professionisti della comunicazione i principi di marketing dei quali non vogliono più evitare né la portata né gli effetti, anzi si rendono conto prima di tutti dell'esigenza di aprire, e di declinare l'arte e le rappresentazioni artistiche tutte anche su esigenze di economicità e su profili di pubblica immagine che garantiscano continuità e qualità della produzione culturale.

In buona sostanza è auspicabile che dal basso e dall'alto si prenda coscienza che dedicarsi alla propria storia e a preservare davvero le nostre eccellenze non è più solo compito e virtù di mecenati, ma obbligo e dovere di tutti e che realizzare questa tutela è anche un modo per incrementare e favorire nuove opportunità di crescita collettiva anche in senso economico attraverso anche la creazione di nuove professionalità e di lavoro.