Ogni anno oltre il 16% dei laureati che vuol fare ricerca lascia il nostro Paese, a fronte di un 3% che arriva, con un saldo negativo del 13%. Sono le stime di una indagine del CNR che evidenzia un fenomeno tanto negativo quanto irrazionale. Negativo perché questi giovani non vanno via per fare esperienza, imparare altre lingue, nuove tecniche e poi tornare. Loro vanno via perché nel Paese dove sono nati, cresciuti, e hanno studiato non c’è lavoro.

E’ irrazionale perché il “sistema Italia” investe sui propri giovani, dà loro una preparazione competitiva ed apprezzata ovunque ma non è in grado di trattenerli. Così questi giovani vanno a svolgere le loro ricerche altrove, a vantaggio di Paesi che non hanno speso un euro per la loro formazione ma che mettono a disposizione risorse adeguate per fare ricerca, per poi sfruttare i risultati ottenuti. Questo è un vero paradosso.

Brain drain

E’ così che gli inglesi chiamano “fuga di cervelli”, quel fenomeno che vede i giovani abbandonare il paese dove hanno studiato per cercare lavoro altrove, senza pensare ad un ritorno in patria. Carolina Brandi, ricercatrice del Irpps-Cnr (Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali) da diversi anni studia questo fenomeno.

Recentemente la Brandi ha presentato i numeri di questo fenomeno, un vero problema su cui bisognerebbe intervenire per contrastare.

E’ fisiologico che molti giovani vanno all’estero per fare esperienza e poi tornare nelle proprie università per mettere a frutto quanto hanno imparato, così come è fisiologico che molti giovani arrivino nelle nostre università per imparare da noi cose che poi continueranno a fare nei loro paesi. Questo è quanto avviene in molti Paesi europei come la Germania, dove il bilancio tra chi parte e chi arriva è sostanzialmente in pareggio. Come la Svizzera o la Svezia, con un saldo positivo del + 20%, il Regno Unito (+ 7,8%), la Francia (+ 4,1%), o la Spagna (+ 1%).

Da noi invece, l’esodo è di circa 3.000 ricercatori l’anno che, nel decennio 2010-2020 porta ad una fuga di 30.000 ricercatori, costata agli italiani 5 miliardi. Ma questo investimento non contribuirà al PIL del nostro Paese, anzi farà progredire Paesi che non avranno speso neanche un euro per la loro formazione.

E magari poi noi andremo ad acquistare i prodotti della loro ricerca.

Le cause di un brutto fenomeno

I motivi che spingono i giovani ricercatori ad andare via sono ben noti, lavori precari se non umilianti, guadagni più bassi, possibilità di carriera legata non al merito o ai risultati bensì alle conoscenze, e quando possono fare un po’ di ricerca le risorse arrivano in misura limitata e i risultati vanno poi divisi con chi sta sopra di loro, perché vige il sistema della “rendita di posizione”.

E poi, secondo la Brandi, il nostro Paese ha una “overeducation”, cioè produce più dottorati di ricerca di quanto il nostro mercato del lavoro ne può assorbire. La mancanza di lavoro, prima spinge più giovani a studiare e poi, appena laureati, ad emigrare.