Alla fine sono andata a vedere 'The Danish Girl'. Avendo deciso all'ultimo momento di vedere il film, motivata da alcuni amici, ho percorso i 250 metri che separano la mia magione dal Cinema e sono arrivata a destinazione. All'ingresso, una coda piuttosto nutrita di giovani - che bello vedere tanti giovani per un film in lingua originale!, pensavo - mi ha fatto quasi temere che sarei tornata a casa a bocca asciutta. E invece no. Conquistato il mio biglietto, ho guadagnato il mio posto in seconda fila e mi sono seduta. La sala era tanto gremita che una delle ragazze dell'Odissea ha dovuto aggiungere delle sedie ai lati delle poltroncine.

Gli ultimi arrivati hanno preso posto e le luci si sono finalmente spente.

Le prime immagini del film sormontate dai titoli di testa mostrano il drammatico paesaggio danese immerso nel silenzio dell'inverno, cielo plumbeo che incombe su un mare metallico, dolci colline accarezzate dalla nebbia, alberi mossi dal vento. Solo alla fine del film conosceremo il nome di quei luoghi tanto struggenti quanto invitanti (almeno per me) e ci verrà chiarito il senso della prolessi.

La didascalia iniziale contestualizza l'azione: siamo nella Copenhagen del 1926, fervente, animata, dinamica. Gli alti e longilinei edifici di Nyhavn si riflettono sul canale che ne scompone i colori e le forme, come in un quadro espressionista.

Ed ecco, in un elegante interno, i protagonisti: Einar Wegener e sua moglie Gerda, due giovani artisti amati e apprezzati dal piccolo mondo borghese e intellettuale scandinavo. Gerda è una ritrattista alla ricerca d’ispirazione; Einar è un affermato paesaggista, sensibile e tormentato come i soggetti che ritrae. Lui è diafano e androgino; lei è un concentrato di sensualità ed erotismo, la bocca carnosa, i seni piccoli e le natiche ferme.

Vivono felicemente il loro matrimonio, tra gli eventi mondani che il mercato dell'arte impone e l’intimità domestica, fatta di creatività diurna, eros e notti insonni. Finché un giorno non arriva Lili, discreta e candida come un giglio, la cui bellezza seducente e plastica sembra essersi materializzata da un quadro di Tamara de Lempicka.

Gerda ritrova la sua vena creativa a scapito della sua felicità coniugale: mentre un inatteso successo la porta a esporre nell’agognata Parigi, Lili prende gradualmente il sopravvento, nei quadri e nella vita di Gerda. Come un acquerello esposto alla pioggia, Einar lentamente svanisce, e insieme a lui si dileguano il suo estro, l’amore impalpabile che lo lega a sua moglie, e infine la sua identità.

Tom Hooper realizza un drammatico affresco sullo smarrimento del proprio Io e sulla necessità di ritrovare sé stessi attraverso una nuova fisionomia; l’affermazione della propria identità è raggiunta solo tramite la metamorfosi del corpo, involucro e prigione dell’essenza spirituale. Gli spazi desolati e uggiosi di Vejle sono metafora della catarsi di Lili, libera e leggera come una sciarpa di seta che danza nel vento.