Il colpo di Stato sventato in Turchia e la durissima reazione repressiva del presidente Erdogan non sono soltanto i riflessi di un bieco gioco di potere. Le forze armate turche hanno tentato di rovesciare l’attuale leader turco per una diversa concezione dello Stato. Per capirne qualcosa, andiamo prioritariamente a rileggerci la storia.

La storia

Sino al 1922, la Turchia è stata sede dell’Impero Ottomano, dove il Sultano, capo dello Stato, era anche la massima autorità religiosa islamica.

Dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale, prese il potere il generale Kemal Ataturk, iniziato alla massoneria e non credente nell’Islam. Giunto al potere con il favore dell’esercito, operò una profonda laicizzazione ed europeizzazione del paese: abolì l’alfabeto arabo,  impose formalmente la parità uomo-donna, limitò all’osso le prerogative dei ministri di culto. Lo Stato turco divenne così una repubblica nazionalista, laica, ma in mano ai militari.

Alla morte del “padre della patria” furono le Forze Armate ad assumersi il compito di salvaguardare la laicità e la modernità della Turchia, magari effettuando periodicamente il loro bravo golpe (ne hanno fatti cinque, oltre a quello recente!).

Poi arrivò Erdogan che, pian piano, cominciò a deviare dai principi fondamentali di Ataturk. Si appoggiò all’elemento islamico e volle mostrarsi, in Patria e all’estero, come il continuatore ideale dell’antico Impero. Non a caso, quando è rientrato a Istanbul dopo la precipitosa fuga in aereo, ha salutato la folla con il gesto dei Fratelli musulmani.

Il potere di Erdogan

Erdogan basa il suo potere sull’elemento islamico della Turchia anche se difficilmente potrà reintrodurre la shariah. Qui entra in gioco il ruolo internazionale assunto dal paese euro-asiatico dalla Seconda guerra mondiale in poi: un pilastro della NATO, ieri ai confini dell’Unione Sovietica, oggi della Russia post-sovietica, la cui forza economico-militare non è da meno.

Per questo, a suo tempo, è stata perdonata al “sultano” l’intenzione di porsi alla testa del gruppo di Stati islamici di etnia turca o turcomanna, soprattutto ex-sovietici e di commerciare petrolio con Daesh. Così come sinora è stata lasciata aperta, dall’Europa, la porta ad un eventuale ingresso di Ankara nell’Unione economica. 

Le azioni di Erdogan immediatamente antecedenti al tentato colpo di Stato, tuttavia, non possono riscuotere il gradimento della diplomazia statunitense. Il 29 giugno scorso, infatti, il leader turco si è incontrato con Putin, mettendo da parte gli attriti tra le due potenze, per negoziare il passaggio del gas e del petrolio russo sino al Mediterraneo. Ed ecco che l’esercito, con il quale il Pentagono ha profondi legami, in ambito NATO, tenta di riprendersi il potere.

Erdogan ha accusato del golpe Fetullah Gulen, un esule rifugiatosi negli Stati Uniti. Il movimento di Gulen è certamente presente nella società turca e si ipotizza che abbia presa su circa il 10% della popolazione. Difficilmente, però, può essersi introdotto anche negli alti gradi dell’esercito, data la sua matrice religiosa. Non è credibile, inoltre, che l’intelligence statunitense, presente nelle varie basi militari del paese, sia stata all’oscuro della preparazione e dell’attuazione del tentativo di golpe.

Alcuni osservatori internazionali, pertanto, ritengono che tutta la vicenda sia stata “un avvertimento” degli Stati Uniti nei confronti di Erdogan, ritenuto ormai poco affidabile diplomaticamente.

Nonostante i cambi di rotta del suo Presidente, infatti, la Turchia non può essere destabilizzata del tutto, perché rimane il pilastro di tutta la politica medio orientale dell’alleanza NATO. Meglio un Erdogan al potere, sia pur calpestando i diritti umani, che un salto nel buio.