Uno degli argomenti più discussi e di maggiore impatto virale di questa vigilia di Natale, dopo il fatto di Berlino e la morte del terrorista Anis Amri in fuga a Sesto San Giovanni per circostanze casuali, è l’ormai consolidato rituale del terrorismo globale marchiato Isis di abbandonare il proprio documento d’identità nel luogo della carneficina, quasi come fosse una firma o una rivendicazione.

Sembrano i comunicati delle Brigate Rosse

Il terrorista Isis sembra sintetizzare fiumi di parole con la sua identità e le stratificazioni della sua cultura, elimina tutte le parole superflue nel nome dell’io.

In pratica, io sono quello che c’è scritto nel mio documento.

Il rituale che parte da Charlie Hedbo, sembra ripetersi ciclicamente, quasi come si trattasse di una serie TV, la carta d'identità abbandonata ed il terrorista "freddato" dopo una resistenza armata nel giro di 48 ore, per circostanze a lui sfavorevoli.

Non pensiamo a scenari complottistici ed a strategie della tensione, ma è un fatto che gli autori di attentati e stragi una volta morti non potranno mai rivelare il loro modo di fare rete, a patto che non si voglia pensare, con un pizzico d’ingenuità, che tutto il loro mondo comunicativo passi per il web ed i social network.

La questione dei documenti lasciati nel luogo dell’attentato ormai è evidente: costituisce la firma di un’azione, che sia individuale o che scaturisca da una rete più complessa, questo terrorismo interconnesso e globalizzato si configura come un martirio.

In quest’ottica diventa forse necessario, che nel sistema di rappresentazione culturale ed ideologica integralista, si sappia chi sia l’autore dell’azione.

La “firma” legittima il gesto; lustro, rispetto e denaro sono il compenso simbolico che arriva alla famiglia d’origine.

Un attentato non firmato sarebbe l'equivalente di un attentato non fatto, anonimo, senza nessuna reale ricaduta sociale e terrena per gli affiliati del martire.

Potrebbe questa essere una spiegazione plausibile, ma fosse così, verrebbe meno l’idea del martire da parte di chi immola la sua vita alla causa del terrore, sembrerebbe essere una ammissione di strumentalizzazione ideologica e politica funzionale ad un mercato.

Un martire non dovrebbe avere paura di sfuggire al suo destino

Dove è la spiritualità di un integralista musulmano che ambisce a fare celebrare il proprio martirio con tanto di nome e cognome, sia via web che attraverso i mezzi di comunicazione di massa?

Altra perplessità: un martire kamikaze, che nel nome della propria guerra (di religione?) sa di dovere morire, perché sovente fugge dopo avere compiuto l’attentato?

Ad oggi nessun terrorista/martire/kamikaze ha potuto spiegarci il perché di quei documenti abbandonati...