Salvatore Riina, detto Totò (Corleone - 16 novembre 1930), è stato un mafioso e criminale italiano, capo dell'organizzazione "Cosa Nostra" dal 1982 fino al suo arresto nel 1993, soprannominato "u curtu" - a causa della sua bassa statura - e "la belva" - a causa e della sua ferocia sanguinaria attraverso cui scalò le gerarchie del mondo mafioso -. A pochi giorni dalla sua scomparsa (Parma - 17 novembre 2017) l'amaro ricordo di un'Italia vittima del fenomeno mafioso riemerge, ripercorrendo l'iter che portò definitivamente Riina alla vetta di Cosa Nostra, costruendo le fondamenta di ciò che oggi viene avvertito come mafioso.
Ma in che contesto psicologico nacque la netta distinzione tra ciò che oggi avvertiamo come mafioso e tra ciò che non lo è? Per rispondere sinteticamente a questa domanda in maniera chiara, è utile apportare una netta distinzione che intercorre tra un mafioso e un qualunque altro criminale. Il mafioso, appunto, si categorizza ed è categorizzato nel gruppo mafioso, dunque, la sua identità è prodotto comune di un gruppo di cui si sente parte, a cui corrispondono diritti e doveri a cui adempiere; un criminale comune, invece, è prodotto del suo pensare ed agire, non vive la sua criminalità in relazione a contesti più ampi, il suo stigma, quindi, si ferma a quello di una devianza singolare a cui corrisponde una categorizzazione comune di criminale, non sottostante ad organizzazioni che dettano status e identità a cui conformarsi.
Cosa nostra, allora è una vera e propria organizzazione, tale per cui l'analogia con qualunque forma di organizzazione statale e burocratica sovviene senza che bisogni forzarla. La mafia è un fondamentalismo, è una cultura, è una dittatura: la mafia è un'egemonia territoriale, materiale e psicologica che tocca ogni individuo di una società in cui essa opera.
Dimensione intrapsichica e interpersonale del soggetto mafioso
Per poter riflettere sulle dimensioni psicologiche implicate nel fenomeno mafioso bisogna ricordare che un soggetto è inestricabilmente legato al suo contesto relazionale, dunque, la dimensione intrapsichica e quella interpersonale sono qualcosa di più della somma tra le loro parti, tale per cui le dinamiche del funzionamento individuale sono sempre influenzate dal background socio-culturale.
L'esempio eclatante, appunto, è quello di Riina, la cui psiche è stata profondamente influenzata dal suo vissuto, da ciò che inter-soggettivamente ha vissuto nel corso della sua esistenza. Perse il padre e uno dei fratelli all'età di 13 anni, evento riconducibile all'instaurazione di un trauma che, possibilmente, plasmò la sua psiche e ne fondò i caratteri psicologici persistenti nell'intero corso della sua vita. E' possibile allora ipotizzare un'eziologia della psicopatologia del boss mafioso. Diversi studi, soprattutto del Prof. Lo Verso e colleghi, hanno delineato che, DSM alla mano, il disturbo che più si avvicina al comportamento mafioso è quello antisociale di personalità (APA, DSM IV, 1996).
Ma non ci fermiamo qui, le condizioni di povertà in cui crebbe e la parentela con lo zio mafioso appartenente alla malavita corleonese, sono due eventi che ne influenzeranno l'intera ascesa al potere di Cosa Nostra. Il contesto culturale, sociale ed economico in cui si vive, dunque, plasmano, rafforzano o modificano tratti psicologici nuovi o preesistenti, segnando e precludendo possibilità e scelte di vita. Ma come è possibile che da tutto questo nasca e prenda vita la mafia? Ma come è possibile generalizzare e sistematizzare concetti e costrutti psicologici così astratti in una vera e propria organizzazione fondante status e identità?
E possibile rispondere a questa serie di interrogativi attraverso un processo culturale,sociale e psicologico di cui la mafia si è servita - in maniera più o meno esplicita - per ottenere l'egemonia del potere nello stato italiano: Il concetto di conformismo e l'obbedienza all'autorità.
Il concetto di conformismo e obbedienza all'autorità nel fenomeno mafioso
Come è possibile che la subcultura mafiosa coinvolga così tanti individui e che sia prodotta e mantenuta all'interno di un determinato contesto sociale? Utile, appunto, è il concetto di conformismo, processo attraverso cui ogni società produce la propria cultura, influenzando gli individui che ne fanno parte, mediante un processo di interiorizzazione dei sistemi simbolici, sociali e culturali egemoni di una data società in un dato contesto in cui si trova ad adoperare.
Il conformismo trova un terreno fertile nel contesto italiano, in quanto la cultura di stato è legata a valori collettivistici, per cui gli individui interiorizzano e fanno proprie le norme della propria cultura. Legandosi in maniera così vincolante al modo di agire e pensare della propria cultura, l'individuo sarà incline ad obbedire alle norme di riferimento del proprio contesto, precludendo l'arbitraria attività umana del proprio pensare ed agire, processo che sfocia in un'obbedienza all'autorità cieca, tale per cui l'essere umano elabora le informazioni provenienti dal proprio ambiente secondo gli schemi interiorizzati dalla propria cultura. Per fare un po' di chiarezza è utile includere l'apporto di due pensatori contemporanei: Hanna Arendt - filosofa, scrittrice e storica tedesca naturalizzata statunitense - e Stanley Milgram - psicologo sociale statunitense.
Arendt documentò e analizzò Il processo Eichmann, tenuto nel 1961, a quindici anni da quello di Norimberga, e fu il primo processo a un criminale nazista tenutosi in Israele. Il nucleo fondamentale alla base del processo era dato dall'importanza nello stabilire che “eseguire gli ordini” non era una difesa legittima per atti criminali, come quelli compiuti durante la seconda guerra mondiale dal regime nazista. Eichmann fu il coordinatore e il responsabile dei carichi di deportati che cominciarono a confluire verso i campi di concentramento e sterminio di tutta Europa. Fu dunque uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto. Nel libro poi steso dalla filosofa statunitense - La banalità del male (1963) - è possibile enucleare il suo pensiero relativamente al processo e alla totale obbedienza all'autorità: “Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare.
Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge” (p. 142). Con ciò, la Arendt intendeva sottolineare quanto la condizione di uomo pensante, e libero di scegliere, sia preclusa da un eccessivo conformismo che delega il proprio pensiero agli alti vertici della gerarchia sociale in cui si trova ad operare. Per la filosofa, appunto, Eichmann rappresentava l’assenza di pensiero cioè l’assenza di una dimensione interiore ed etica della coscienza. Tale assenza di pensiero era anche assenza di responsabilità, ossia incapacità di elaborare il significato del proprio agire e dunque le sue conseguenze.
E' possibile dunque porre un'analogia con il sistema dell'organizzazione mafiosa, per cui la dimensione psicologica dell'individuo che ha interiorizzato la subcultura mafiosa, delega la propria attività di pensiero all'autorità, che in questo caso non è altro che il boss - Vedi: Totò u curtu -, divenendo mera appendice fisica del suo "mandante". Ad approfondire ulteriormente lo stato psicologico in cui l'individuo si conforma alla norma egemone è lo psicologo statunitense Stanley Milgram, che approfondì le tesi della Harendt sul processo di Eichmann, valutandone aspetti in cui l'individuo si sottoponeva all'autorità ordinando di eseguire delle azioni in conflitto con i valori etici e morali dei soggetti stessi.
Attraverso le proprie ricerche sulla sottomissione all'autorità sviluppò un paradigma sperimentale, attraverso cui indusse gli individui all'obbedienza all'autorità, processo in cui secondo lo psicologo, l'individuo vive uno stato eteronomico, ossia l'individuo non si considera più libero di intraprendere condotte autonome e non è responsabile di ciò che fa, ma solo puro strumento per eseguire gli ordini dell’autorità. Doveroso a questo punto è collegare il costrutto di violenza dell'autorità, con la relativa obbedienza dell'individuo a quest'ultima. Dunque, la violenza psicologica mafiosa è il punto cardine su cui si fondano tutti i rapporti tra dominanti e dominati, su cui poggia l'equilibrio del sistema sub-culturale che la mafia produce all'interno della più vasta cultura dominante.
E' proprio la violenza psicologica che rende fragile l'individuo, a tal punto da piegarsi e arrendersi al fenomeno mafioso, la violenza fisica che caratterizza la mafia è soltanto un espediente attraverso cui viene dettato il sistema simbolico di riferimento, in maniera tale da poter piegare il nemico, e renderlo fragile, vulnerabile. Dunque, la violenza fisica è collegata soltanto secondariamente a quella psicologica così come nel fenomeno mafioso, così come in ogni organizzazione istituzionale.
'La mafia è una montagna di m****'
Giovanni Falcone, giudice antimafia, asseriva che "la mafia è un fatto umano", dopo questa attenta analisi Psicologia e sociale, è possibile rendersi conto di quanto essa non sia che un artefatto culturale, una subcultura che lega diversi individui all'interno di una cultura più vasta, individui aventi stesse caratteri psicologici, individui legati da un vissuto inter-soggettivo simile.
Lecito è concludere con una delle frasi ormai passate alla storia di una vittima di mafia, Peppino Impastato: "La mafia è una montagna di m****". Aveva ragione Peppino, aveva ragione nell'affermare che la mafia è una m****, così come lo sono tante altre istituzioni e culture di cui siamo meno consapevoli, perché le abbiamo incorporate, perché i mezzi di cui si servono vengono nascosti da finissime strategie di dissimulazione, perché non è facile accorgersi della merda in cui viviamo, non è facile spiegarsi cosa sia, e in un mondo in cui il contratto sociale vige sovrano, forse, è addirittura improbabile estinguerla.