Sono le 8.30 del mattino di domenica quando al centralino del pronto intervento arriva una telefonata anomala. Un uomo dalla voce matura annuncia l'uccisione della propria madre a cui sarebbe succeduta la sua e la via dell'abitazione da cui chiamava. Alcune pattuglie della Compagnia di Rivoli, allertate, vengono fatte convogliare in via Vajont. Gli agenti probabilmente speravano nel gesto di un mitomane in cerca di attenzione. Invece, irrompendo nell'appartamento trovano una donna molto anziana, Ernestina Malandrini, centenaria in una pozza di sangue, vicino il corpo di un uomo, anch'egli morto.

Era Ezio Panataro, 77enne, figlio di Ernestina, che aveva consumato quanto dichiarato poco prima al telefono. Le parole erano state corrispondenti ai fatti.

Sul tavolo gli agenti trovano un lettera riportante testualmente "ho un tumore, scusatemi". Dalle indagini è emerso che l'anziana signora era condannata ad un male subdolo, l'Alzheimer. Malattia non scontabile di persona ma che necessariamente deve essere scontata anche da chi ti è vicino, anche se è l'unico figlio disponibile, anche se ormai non è più giovane. Una condanna che comporta sforzi fisici, ma non sono quelli che logorano, almeno non come logorano quelli mentali: subire giorno per giorno il dover accettare passivi l'alterarsi dell'interazioni, la morte del "simpathos", la metamorfosi irreversibile di chi fino poco prima era una "colonna" della tua vita, la consapevolezza di essere fattualmente indispensabile alla sopravvivenza del tuo caro, il dovere, morale prima che giuridico, di dare quanto è possibile per il benessere di chi ha fatto tanto per te, diventano nei mesi manette d'acciaio che pesano come travi di cemento nella mente di una persona.

Sopratutto se non si è nelle facoltà di poter garantire le dispendiose cure adeguate. Soprattutto se si è da soli o ci si sente tali.

Il preambolo

Chissa come si sarà sentito Ezio, che in aggiunta a quanto stava vivendo, la settimana scorsa, corso al pronto soccorso di Rivoli per un improvviso malore gli viene diagnosticato un cancro incurabile al pancreas?

Un male che inevitabilmente l'avrebbe fatto morire prima della madre la cui vita dipende da lui. Chissa cosa nelle notti successive, fissando un muro, cosa avrà pensato sul futuro di sua madre non più autosufficiente? Immagino dubbi come "Chissà che fine farà? Chissa in che mani finirà? È una malattia pesante, non posso pretendere che parenti non prossimi si occupino di lei con le cure necessarie...che vita l'attende?

E che vita ci attende fino alla mia fine?"

Di una cosa sono certo, per arrivare a determinare una volontà idonea a compiere un tale gesto credo che nella mente dell'uomo dovesse essersi raffigurato, quantomeno con un'alta probabilitá, un futuro più doloroso ed estenuante di un colpo di pistola immediato. Un colpo-onere che un destino cinico aveva riversato nelle sue mani, consapevole che sarebbe divenuto onta personale e facilmente sociale per l'uomo.

Non stiamo parlando di un pazzo o incosciente. L'uomo nel pieno delle sue facoltà aveva organizzato tutto lasciando apposite lettere, anche a famigliari ignari della situazione personale dell'uomo, in cui dava indicazioni, volontà e denaro per attuarle.

E scuse. Mi sono chiesto di cosa si dovrà mai scusare chi ucciderá con la convinzione di limitare la sofferenza, e a chi si debba scusare visto che l'offeso dal suo gesto moriva con lui, ma probabilmente Ezio non è stato del mio stesso avviso, forse il non poter più portare da solo la croce di quella malattia era fonte di disonore per lui, forse credeva che la sua condotta sarebbe stata vista la via "facile" e forse anche lui ne era convinto.

La cosa drammaticamente cinica è che questo episodio è l'ennesimo caso di omicidio e suicidio per sentimento di disperazione e abbandono. Solo una settimana fa sempre nel torinese un uomo aveva attuato il medesimo disegno con la moglie, anch'essa malata di Alzheimer.

Basterebbe scorrere la cronaca dell'ultimo anno per leggere decine di storie uguali, o meglio mosse da uguali sentimenti: la sfiducia nel "mondo" a cui si dovrebbe lasciare in custodia ciò che si ha di più caro.

Il prologo

Per l'esecutore materiale non ci sono dubbi, ma qui sarebbe da cercare il mandante.É mai possibile che ad un uomo solo di 77 anni con a carico un non autosufficiente venga diagnosticato un tumore fatale e poi basta? È possibile che il nostro nominato-quando fa comodo- "sistema civile" abbia lasciato un uomo nella cui testa era prevedibile da chiunque girassero frasi come "la Donna che mi ha accudito, ora che dipende da me per sopravvivere non sono nemmeno in grado di darle un declino decente"?

Possibile che non uno conoscesse la completa situazione di quest'uomo? Sia chiaro, non sto cercando colpevoli: né nei parenti, so benissimo quanto vengano nascoste per orgoglio, timore ,piacere o semplice distanza le circostanze reali nel circuito familiare, né in qualsiasi operatore pubblico intervenuto in questa storia, sono certo che abbia attuato diligentemente le procedure non sue come impone il ruolo rivestito.

Quindi, questa storia ha solo non colpevoli...possibile? Mi pare che, come almeno un paio di sociologi contemporanei direbbero, "siamo ubriacati dall'apparenza", non conta più il bene o il male, conta solo compiere il minimo indispensabile per far apparire bene o non male agli occhi degli altri, il resto è "sfondo".

E questo tanto a livello sociale che istituzionale.

Sembra che siamo passati da figli a padri dell'apparire in cui vogliamo la sostanza come inutile contenuto della amata forma. Del resto la forma costa meno fatica della sostanza. Non ha importanza piú neppure il se stesso, conta la proiezione di noi stessi o, ancor peggio, il feedback altrui di noi stessi. Ognuno di noi prende sostanza dalla forma richiesta dagli altri. E se non richieste vive l'indifferenza.

Puo essere questa una storia sintomo della lontananza sociale e istituzionale in cui noi tutti viviamo grazie al miraggio intercomunicativo creato dalla c.d. era della connettività? La Connettività virtuale, portatrice anche di questi risultati, non dimostra forse che siamo la prova vivente dello status naturae Hobbesiano e di qualsiasi altro paradigma sociale in cui la socialità dell'uomo è dipinta solo come strumento per massimizzare i propri interessi?

E non bisogna nascondersi dietro un dito, tutti noi siamo, nella maggior parte dei moventi del nostro agire, individualistici. Chi dice il contrario o è un perbenista o un incosciente. Ma io mi chiedo, forse un "sistema" che ha scelto quale "musa" la ricerca del benessere individuale non rischia di sancire tale carattere?

Credo si debba porre più attenzione al fenomeno della "profezia che si autorealizza", dove nel momento che si decide "bianco", che lo sia o meno non importa più a nessuno ma sarà bianco per tutti. Questo breve articolo non vuole dare risposte, non ne è capace, o, come ho già scritto, trovare colpevoli, non ce ne sono, ma prevede, anzi esige domande. E forse, citando un vecchio programma, ricordarci che non solo "la storia siamo noi", ma anche la società e i suoi contenuti siamo noi.