Per molti è l’anima della comunicazione, per altri la comunicazione dell’anima. Da sempre, sua maestà la pubblicità all’occorrenza divide, indigna, attrae, commuove, schernisce, irrita, fa sorridere, arrabbiare, riflettere. Scatena delle reazioni, lo fa per mestiere. E i manifesti che campeggiano in questi giorni per le strade di Potenza non sono da meno: da quando sono comparsi, il 30 marzo, quei cartelloni che citano: «Amore, ma se mi uccidi, dopo chi picchi?» hanno fatto parlare di sé più di ogni altro evento cittadino, se si esclude la festività di San Gerardo (patrono della città).

L’intenzione pare sia quella di pubblicizzare un convegno, previsto per il 13 aprile, contro la violenza sulle donne. Ma a scatenare critiche non è – ovviamente – il tema promosso sul Manifesto, bensì il linguaggio scelto per comunicare l'iniziativa. Dai più non apprezzato, tant’é che se ne è richiesta la rimozione.

Le polemiche

Sono tante le reazioni scatenate e le prese di posizione, quasi tutte contrarie allo slogan usato male: "Amore, ma se mi uccidi, dopo chi picchi?'' che è estrapolato dal titolo di un cortometraggio - promosso tempo fa dall’Assessorato Pari Opportunità della Regione Campania, dal Comune di Napoli, dal Centro Dafne Codice Rosa dell’ospedale Cardarelli di Napoli e dall’E.A.V.

(Ente Autonomo Volturno) - che racconta il calvario di una donna malmenata brutalmente, fino alla morte, dal marito violento; e interpretato da Rosalia Porcaro, nota attrice comica, che impersona la vittima che, nel video, ripete continuamente questa frase. È quel titolo il problema e fa discutere per un preciso particolare: la parola “amore” proferita ipoteticamente dalla vittima che chiede al suo uomo di non ucciderla altrimenti questi non avrà poi chi picchiare.

Un messaggio contraddittorio e per questo facilmente travisabile.

Ecco - dunque - il perché di tante obiezioni da parte delle associazioni femministe, locali e nazionali, tra cui Telefono Donna, D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) del Telefono Rosa, la Cooperativa Be Free e altre ancora, tutte che puntano il dito contro il messaggio del manifesto e che ne chiedono con fermezza l'immediata rimozione.

Il contenuto dei loro comunicati è, tutto sommato, lo stesso: il punto è che diverse istituzioni, dal Consiglio Regionale al Comune di Potenza, all'Asp e all'Azienda sanitaria San Carlo, nonché l'ordine degli avvocati, hanno dato il loro patrocinio a un convegno che, con uno slogan del genere, rischia di mandare all'aria anni di lavoro non solo dei centri di antiviolenza ma di tutti coloro che da tempo si impegnano nella lotta al contrasto della violenza di genere, che purtroppo continua ad essere avvallata da una cattiva comunicazione - non solo stereotipata e anacronistica - ma anche irrispettosa e rischiosa verso tutte quelle donne che subiscono, ancora oggi, violenze da parte di un uomo.

Le medesime richieste sono pervenute anche dalla consigliera di Pari Opportunità della Basilicata (Ivana Enrica Pipponzi), la consigliera supplente (Luisa Rubino) e l'assessore comunale alle Pari opportunità (Carmen Celi), le quali - per quanto considerino la finalità nobile - definiscono lo slogan irrispettoso e in contrasto col buonsenso e il buongusto, dalla rappresentazione inadatta a superare stereotipi e pregiudizi.

Insistono - tutte - sulla delicatezza che, per loro natura, hanno i messaggi di sensibilizzazione: ecco perché devono essere chiari, netti e inequivocabili. Senza rischiare di lanciare messaggi travisabili, sbagliati e contraddittori, che finiscono per vanificare le tante campagne di sensibilizzazione fatte fino ad oggi.

Dunque, dalle istituzioni arriva forte l'avviso per chiarirne la posizione; anche il Comune di Potenza ci tiene a comunicare di non aver mai concesso il patrocinio sia gratuito che morale all'iniziativa, né che questa sia mai stata richiesta ufficialmente. A dissociarsi dalla campagna affissioni è anche la stessa casa di produzione cinematografica - la Maxima Film di Marzio Honorato e Germano Bellavia - che ha prodotto il cortometraggio a cui lo slogan si ispira.

Il motivo, è presto detto: i manifesti utilizzano impropriamente il titolo e il contenuto del cortometraggio, perché il messaggio sociale diffuso attraverso le affissioni è palesemente errato e fuorviante. Anche loro chiedono l'immediata rimozione dei manifesti.

La replica degli organizzatori

Promotrice dell'evento è l'Associazione Sinergie Lucane, che commenta come voluta la forte comunicazione utilizzata, così da indurre - a loro dire - a una riflessione. Perché non esiste un preciso e formale linguaggio di genere per affrontare un fenomeno psichiatrico e sociale come il femminicidio, ma piuttosto esiste un obiettivo: disvelare una verità profonda e dolorosa, alle volte l'istinto di morte e l'istinto d'amore coesistono; e con il linguaggio da loro promosso, la provocazione è intenzionale per essere così d'impatto e centrare il problema alla base della personalità distorta e ambivalente dell'uomo che esercita violenza sulla stessa persona che dichiara di amare.

Lo fa con un ossimoro ma soprattutto attraverso una domanda che inchioda il carnefice di fronte a questo meccanismo malato. Chi ha polemizzato su questa diversità di comunicazione, ha peccato - quindi - di troppa poca attenzione a leggere tra le righe? Gli organizzatori fanno notare che basta leggerne il sottotitolo ("La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci") per spiegare il paradosso del titolo. Ovvio che il messaggio, se decontestualizzato, rischia di creare pericolosi fraintendimenti. Com'è accaduto, del resto. Ma davvero lo slogan è così forviante e dispensatore di un messaggio subliminale violento? Una mera provocazione intellettuale, riuscita male? Un ironico capovolgimento di luoghi comuni?

Una messa sotto accusa così sofisticata da risultare incomprensibile?

Il potere delle parole

Di fatto, lo spot che dovrebbe denunciare le violenze domestiche e ancora di più il manifesto che ne è tratto appaiono un inquietante messaggio di accettazione della violenza come inevitabile. Non tenere conto dei significati simbolici dei linguaggi, delle parole e delle immagini, può drammaticamente condurre a ottenere il risultato opposto a quello voluto. E si continua, così, a confondere amore e violenza; continuando ad avvallare una cattiva comunicazione non solo stereotipata ma irrispettosa.

Più in generale poi, il linguaggio è spesso un'arma a doppio taglio: può essere un elemento fondamentale per la battaglia contro la violenza, ma spesso può rappresentare parole inadeguate e pericolose, se ostili.

In tal caso, il linguaggio - volutamente - provocatorio e di rottura è stato, dunque, adoperato per dare una scossa alla lotta contro il femminicidio. In fondo, è ciò che i guru della pubblicità predicano da sempre: per essere incisivi bisogna scrollarsi di dosso il linguaggio politically correct e arrivare dritti al punto. Anche se fa storcere il naso.