Nelle ultime ore quattro episodi, tra loro più o meno concatenati, hanno posto la Libia sotto gli occhi di tutto il mondo ed in particolare del nostro paese. Innanzitutto la diffusione delle immagini relative alla decapitazione sul territorio libico da parte delle forze dell’IS dei 21 copti rapiti in Egitto nel mese di dicembre. In secondo luogo, le minacce trasmesse dalla radio ufficiale dello Stato Islamico al-Bayan nei confronti del Ministro Paolo Gentiloni, definito Ministro degli Esteri dell’Italia crociata in conseguenza della disponibilità da lui espressa ad includere l’Italia in un’eventuale forza ONU di lotta all’IS. 
Terzo, l’aggressione subita al largo delle coste siciliane da una motovedetta italiana durante un’opera di trasferimento di immigrati dai barconi, costretta ad allontanarsi sotto la minaccia di un assalto a colpi di kalashnikov da miliziani non meglio identificati.

Infine, l’attacco di poche ore fa da parte di una forza congiunta libico-egiziana contro le postazioni dello Stato Islamico sul territorio libico, come conseguenza dell’uccisione dei copti nonché dell’escalation di violenza attuata dai terroristi negli ultimi giorni in questa nuova area parecchio lontana da quella Siria e quell’Iraq a cui solitamente associamo la sigla IS. 

L’Italia a questo punto per la prima volta da quando si parla di Califfato comincia a sentire la minaccia terroristica vicina e non più come un problema radicato a migliaia di chilometri dalle sue frontiere. E dunque comincia a preoccuparsene davvero. Torna così di estrema attualità quel “marceremo su Roma” pronunciato lo scorso novembre dal leader dell’IS Al-Baghdadi, parole a cui si era dato poco peso vista la distanza geografica che si credeva ci separasse dalla minaccia terroristica. Ma ora, alla luce degli episodi citati, si può affermare con certezza che lo scenario geo-politico è cambiato. Qual è dunque la prima reazione dell’Italia davanti agli eventi in corso? È una reazione confusa, eterogenea, senza un filo comune a legare il pensiero delle varie personalità politiche.

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha richiamato alla prudenza,  affermando che non è il momento per una soluzione militare alla crisi. Piuttosto, secondo il Premier è necessario agire in termini politici-diplomatici in attesa anche di una presa di posizione più chiara e decisa da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Allo stesso tempo il Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni ha evocato la parola guerra, prospettando la possibilità di un intervento armato sotto l’egida di una forza internazionale, magari capitanata proprio dall’Italia. Parole a cui hanno fatto seguito quelle del Ministro della Difesa Roberta Pinotti che ha addirittura iniziato a fare qualche numero riguardo alle dimensioni e agli effettivi di un ipotetico contingente militare italiano da inviare in Libia. Di diverso avviso invece il presidente della Commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, che in linea con l’idea di Renzi ha dichiarato di abbassare i toni ed attendere iniziative ed indicazioni da parte delle Nazioni Unite prima di prendere realmente in considerazione la possibilità di un intervento armato. 

Come si può notare, le opinioni all’interno del Governo non appaiono in sintonia riguardo alla gestione della nuova, ennesima crisi libica. Se a questa discordanza governativa aggiungiamo l’eterogeneità di vedute provenienti da chi nel Governo non è rappresentato - dai 5 Stelle che si oppongono ad ogni tipo di guerra ai leghisti che tramite Salvini vedono la soluzione nella proposta shock di lasciare in mare i barconi carichi di immigrati che si presentano sulle coste Italiane - ecco che quello che emerge è un quadro caotico che rende improbabile un intervento armato nell’immediato futuro.