Sebbene la demenza sia una patologia in forte aumento in tutto il mondo, con 47 milioni di pazienti che diventeranno 76 milioni nel 2030 per arrivare a 135 milioni nel 2050, ancora oggi si fa fatica a trovare soluzioni a questo problema. Dopo la decisione dello scorso anno da parte di Merck e Pfizer di abbandonare dei progetti di ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci contro malattie neurovegetative, dalle pagine di JAMA arriva un'altra notizia negativa. Un trial clinico di Fase 3 - promosso dalla biotech danese Lundbeck, su 2525 pazienti affetti da forme lieve a moderata di alzheimer, trattati con idalopiridina, non ha dato i risultati auspicati.

Alzheimer, idalopiridina fallisce in Fase 3

L’idalopiridina è un antagonista selettivo del recettore serotoninergico 5-HT6 (5- idrossitriptamina-6) in grado di aumentare, nel cervello, l’attività di quattro neurotrasmettitori dopaminergici, colinergici, noradrenergici e glutammatergici, a cominciare da un’aumentata disponibilità di serotonina.

Sebbene il farmaco sperimentale idalopiridina, nelle fasi cliniche precedenti avesse dato esito positivo in termini di sicurezza, quando è arrivato in Fase 3 dove si va a valutare l’efficacia, in tre distinti studi - 2525 pazienti di età pari o superiore a 50 anni, affetti da forme lieve a moderata di Alzheimer, i risultati ottenuti non sono stati giudicati soddisfacenti.

Lo studio ha coinvolto pazienti, già in trattamento con un inibitore di colinesterasi da 4 mesi, che hanno ricevuto in aggiunta anche idalopirdina (10, 30 o 60 mg/giorno) o placebo, per 24 settimane.

Una ricerca piuttosto complessa

Sebbene il “medical need”, ovvero il bisogno di medicinali, nel campo delle malattie neurovegetative sia piuttosto elevato, è altresì vero che lo sviluppo di nuovi farmaci in questo settore è un’operazione piuttosto complessa.

A fronte di ingenti investimenti i risultati sono spesso deludenti. In un editoriale, pubblicato sempre su JAMA, David Bennett, direttore del Rush University’s Alzheimer’s Disease Center di Chicago, ha dichiarato che sono circa 400 gli studi clinici su terapie anti-Alzheimer che hanno fallito.

Questi dati fotografano un problema e spiegano perché molte aziende sono scoraggiate a continuare ad investire in questo settore.

A differenza di molte altre patologie, anche gravi, come cancro, infezioni o malattie dismetaboliche, dove esistono modelli di laboratorio piuttosto predittivi dell’efficacia di una nuova molecola, nelle patologie neurovegetative l’efficacia la si può osservare con la sperimentazione clinica che può durare molti mesi, o addirittura anni, prima di avere un esito definitivo.

Ai tanti pazienti che attendono una risposta terapeutica arriva il messaggio confortante di Mario Melazzini, direttore generale dell’Aifa, che in un editoriale pubblicato sul sito dell’agenzia dichiara che attualmente sulle patologie neurovegetative ci sono 190 studi clinici su circa 100 principi attivi, molti in fase clinica avanzata.

Pertanto è atteso, nel giro di pochi anni, una serie di nuovi farmaci capaci di dare qualche beneficio a questi pazienti.

Intanto, il primo obiettivo rimane la prevenzione. A tal proposito sono diversi i consigli che vengono dati dagli esperti, a partire dal seguire un corretto stile di vita. Con l’obiettivo di prevenire o, almeno, rallentare la comparsa della malattia.

Comunque non bisogna disperare

Le più grandi scoperte, a volte si sono fatte per caso, come per l’antidiabetico liraglutide. Poche settimane fa sulla rivista Brain Research sono stati pubblicati i risultati di una ricerca di laboratorio, condotta da Christian Holscher della Lancaster University (GB), su questo farmaco contro il diabete tipo 2, una molecola dotata di una tripla azione che, tra l’altro, stimola gli ormoni GLP-1/GIP (incretine), secreti normalmente dopo i pasti per il controllo dello zucchero nel sangue (glicemia).

Negli animali di laboratorio, il farmaco ha fatto registrare un notevole miglioramento della memoria e della capacità di apprendimento grazie a quattro effetti complementari: riduzione della perdita di cellule nervose cerebrali, della presenza di placche di beta-amiloide, dei processi infiammatori e dei radicali liberi, e aumento dei fattori di crescita. Adesso bisogna attendere i risultati della sperimentazione clinica.

Sempre per caso, i ricercatori hanno osservato che il caffè (4-5 tazze di caffè americano) aiuta i ritmi circadiani (ciclo sonno-veglia) e può contrastare le malattie degenerative come Alzheimer e Parkinson. Insomma, sebbene il problema sia di difficile soluzione, non bisogna disperare.