Generalmente si manifesta in età avanzata, come prolungamento di un’iniziale demenza senile, attraverso sintomi inconfondibili, come progressiva perdita della memoria, alterazioni della percezione generale e mutamenti d’umore repentini. Ma il morbo d’Alzheimer può anche insorgere in soggetti molto più giovani, addirittura tra i 40 e i 50 anni di età.

Cos’è il morbo di Alzheimer

Si tratta di una degenerazione dello stato di coscienza che comporta un declino generale della sfera sensoriale. L’aggravarsi delle condizioni è lento, ma progressivo e inesorabile, e le conseguenze irreversibili.

Non coincide necessariamente con l’invecchiamento biologico, sebbene l’avanzare dell’età costituisca un fattore di rischio non trascurabile. Nel 5% dei casi, infatti, i sintomi di tale patologia possono iniziare ad affacciarsi a partire dai 40 anni, per proseguire oltre la terza età. In altri casi, invece, le prime avvisaglie tendono ad arrivare dopo i 65 anni.

Attualmente la malattia è oggetto di studi e ricerche, volte a verificarne la causa scatenante e stabilire una cura appropriata e risolutiva, poiché i trattamenti finora adoperati consentono solo di agire sui sintomi e di rallentarne l’avanzamento. Dai recenti studi di un’equipe di scienziati britannici, guidata da Annalena Venneri, docente all'Università di Sheffield, emerge infatti che la perdita di cellule che producono dopamina può causare il malfunzionamento dell’ippocampo, la parte del cervello deputata a produrre la memoria.

La scoperta, pubblicata sul "Journal of alzheimer's Disease", potrebbe rivoluzionare gli screening per l’Alzheimer. Come rivela la stessa Annalena Venneri, dello “Sheffield Institute for Translational Neuroscience”, le cosiddette placche amiloidi, sospettate di avere un ruolo fondamentale nella malattia, “non costituiscono l’elemento cardine nella forma sporadica della malattia e non riflettono la severità dei sintomi”.

Gli studi suggeriscono invece “un meccanismo diverso per la degenerazione dell’ippocampo". Risulterebbe cruciale dunque il legame tra la diminuzione della quantità di dopamina prodotta nella parte profonda del cervello e la capacità di elaborare i ricordi.

Sintomi e prevenzione

Benchè risulti azzardato parlare di cura, ciò non impedisce di adottare uno stile di vita utile a garantire un atteggiamento preventivo.

Un comportamento consapevole e una serie di sane abitudini possono ridurre sensibilmente il rischio di andare incontro alla degenerazione cellulare verosimilmente colpevole di generare la patologia. In primo luogo, è necessario mantenere attivi corpo e spirito, stimolando la memoria e sviluppando la struttura muscoloscheletrica attraverso il costante esercizio fisico. Essenziale, a tal fine, anche adottare una dieta equilibrata e varia, che apporti la giusta quantità di nutrienti e assicuri dei valori ematologici e dei parametri vitali regolari.

I campanelli d’allarme sono alquanto inequivocabili: inizialmente si ha una riduzione della memoria e delle facoltà mentali, capace di interferire con il normale svolgimento delle attività quotidiane, rendendo insuperabili questioni che prima apparivano banali.

Anche destreggiarsi diventa difficile, poiché si altera la percezione della direzione e l’orientamento risulta confuso, così come la cognizione del tempo e la capacità di adoperare il denaro. Tutto ciò impedisce chiaramente di mantenere i normali rapporti e le abitudini familiari, rendendo difficile l’interazione sociale. Successivamente anche la coordinazione motoria e quella vocale vengono compromesse.

Quando l’Alzheimer è precoce

Esistono purtroppo forme estremamente precoci, tanto da anticipare di molto anche l’età di insorgenza già prematura dei 40. Uno studio universitario effettuato a Boston, su una comunità colombiana, ha dimostrato per la prima volta come alla base di questa pericolosa forma ci sia una proteina, la "tau", che tende ad accumularsi nel cervello dei soggetti che presentano la mutazione.

In questo caso, l'Alzheimer può manifestarsi addirittura intorno ai vent’anni. Si tratta di una forma ereditaria, per la quale la ricerca, eseguita da un team guidato dal neurologo Francisco Lopera, sta sperimentando delle terapie finalizzate alla prevenzione dei danni al sistema nervoso, prima che questi diventino irreparabili.

Gli studi hanno rivelato una mutazione genetica nella maggior parte dei soggetti esaminati e, dall’analisi del liquido cerebrospinale, sono emersi livelli piuttosto alti di beta-amiloide. Inoltre le immagini a raggi X hanno evidenziato una riduzione della materia grigia nel cervello. I ricercatori hanno spiegato come queste scoperte suggeriscano che “i cambiamenti cerebrali iniziano sei anni prima della manifestazione clinica del morbo di Alzheimer e ancora prima della deposizione delle placche amiloidi”.

Questo elemento esorta a focalizzare l’attenzione sulle condizioni che predispongono alla patologia e sui meccanismi cerebrali coinvolti in tale predisposizione, al fine di individuare eventuali terapie preventive.