Per tre volte si è presentata al pronto soccorso di un ospedale londinese e per tre volte è stata rimandata a casa con una semplice prescrizione per il paracetamolo, un comune antidolorifico e antinfluenzale. Nonostante i sintomi fossero sempre più gravi: vomito e forte mal di testa prima, fotofobia poi. Alessia (nome di fantasia perché la protagonista ha solo 17 anni) ha rischiato di morire a Londra, dove si trovava in vacanza, per una diagnosi completamente sbagliata: non le occorreva il paracetamolo, ma un delicato intervento chirurgico per salvarle la vita.
E se oggi è ancora viva, lo deve ai suoi genitori e a un primario dell’ospedale Cisanello di Pisa.
Rischio di morte per il 50 per cento dei pazienti
I fatti si sono svolti nella seconda metà dello scorso luglio ma sono stati resi noti solo il 5 agosto, quando i genitori di Alessia hanno scritto una lettera al quotidiano La Repubblica per raccontare quanto avvenuto. Nello scorso mese la ragazza si è sentita male mentre si trovava in vacanza nella capitale britannica: sintomi sempre più evidenti ma, come già accennato, sottovalutati dalle strutture ospedaliere londinesi che hanno rifiutato persino una semplice flebo, ritenendola superflua.
Alla fine i genitori della ragazza hanno rotto gli indugi: dopo averla raggiunta a Londra e aver verificato la situazione, l’hanno riportata prima possibile in Italia con un volo di linea – con tutti i rischi del caso – per farla ricoverare presso il policlinico di Pisa, sua città natale.
Alessia stava sempre peggio, i genitori raccontano che ormai giaceva nel letto con gli occhi sempre chiusi perché anche la sola luce le provocava dolore (fotofobia). Cercava continuamente le loro mani per avere un minimo di conforto, mentre i medici la sottoponevano a esami per capire la natura della sua patologia. E alla fine, il professor Riccardo Vannozzi, primario del reparto di neurochirurgia del policlinico, ha trovato la diagnosi: “Si trattava di un’emorragia cerebrale per lesione di malformazione artero-venosa congenita”, ha spiegato, “Alessia per otto giorni ha vissuto in condizioni estremamente difficili, ho deciso di operarla anche se in questi casi il 50 per cento dei pazienti non sopravvive.
Ma evidentemente, qualcuno ha deciso che lei rientrava nell’altro 50 per cento”.
Poche ore dopo l’intervento Alessia già parlava con il suo chirurgo
La mamma di Alessia, nella sua lettera a Repubblica, non nasconde la commozione: “Già poche ore dopo l’intervento, mia figlia parlava con il suo chirurgo di arte, spiagge e spaghetti allo scoglio, una reazione insperabile se confrontata con le sue condizioni precedenti”.
“Medici e infermieri l’hanno curata e la curano con professionalità e abnegazione, quanto le è stato negato a Londra in base a scelte diverse, forse dovute a problemi di budget”. Oltremanica, infatti, nessuno è stato in grado di effettuare una diagnosi corretta, nessuno ha suggerito altri esami o verifiche, nessuno ha disposto una Tac di approfondimento (primo esame disposto invece dai medici pisani) esponendo Alessia a un concreto rischio di morire; un evento che poteva verificarsi anche sull’aereo durante il viaggio di ritorno, se le sue condizioni fossero peggiorate a bordo nessuno avrebbe potuto salvarla. Ma alla fine tutto è andato bene e grazie al professor Vannozzi e alla sua equipe, Alessia può ancora guardare con serenità alla vita.
“Il sistema sanitario italiano è il migliore del mondo – ha commentato il professor Vannozzi – e soprattutto deve rimanere pubblico. Occorre garantire sempre efficienza, senza pensare a logiche produttive. Se finisse in mani private, la sanità correrebbe il rischio di vedere sacrificata l’efficienza per alzare la produttività”. È assolutamente vietato, secondo il primario, operare chi non ne ha bisogno, ma al tempo stesso bisogna garantire che, in caso di bisogno reale e concreto, si possano fare tutti gli accertamenti per valutare ogni possibile scenario per la salvaguardia dei pazienti.