Il diritto all’oblio rischia di rimanere un principio inapplicabile. Da quando la rete ha reso possibile la cristallizzazione delle informazioni nell’eterno presente dei risultati dei motori di ricerca, ciascuno di noi rischia di rimanere inchiodato a un passato che non esiste più, o peggio ancora a notizie sbagliate sul proprio conto. Tra una libertà di stampa senza limiti e la difesa del diritto a essere dimenticati, il legislatore europeo ha scelto, con le dovute eccezioni, di lottare per il secondo principio. Ma diventa sempre più chiaro che si tratta di una battaglia difficile da vincere.

La questione del diritto all’oblio chiama inevitabilmente in causa Google, il motore di ricerca che indicizza le informazioni caricate sul web. Tutto è iniziato con la storica decisione della Corte di Giustizia europea che nel maggio 2014 ha riconosciuto a ciascun cittadino europeo il diritto di vedere eliminate da Google le informazioni sul proprio conto considerate inesatte o lesive. La sentenza ribadiva il principio per il quale un lasso di tempo sufficientemente grande trascorso dalla notizia non ne giustificherebbe più la permanenza nel pubblico dominio. Google si trovò spiazzato, ma recepì la sentenza e approntò uno “sportello” ad hoc presso cui fare richiesta dell’eventuale cancellazione delle notizie (tecnicamente non si tratta di cancellare i dati dal web ma di renderli irraggiungibili nelle ricerche, oppure di eliminare dai risultati il nome del richiedente).

Presto però è parso chiaro che il colosso di Mountain View stava aggirando la sentenza. Si è limitato infatti a cancellare le indicizzazioni solo dal dominio Google riferito al territorio dell’autorità o del soggetto che formulava la richiesta. Significa che, in seguito alla richiesta di un utente italiano, le informazioni verrebbero deindicizzate solo su google.it, ma non su google.com o google.us o su ciascuno dei domini degli altri Paesi; il problema è che questi domini sono ugualmente raggiungibili dall’Italia.

Insomma, a meno che i tribunali statunitensi (o addirittura di tutti gli altri Paesi) ratifichino caso per caso le direttive di quelli europei, le informazioni resterebbero comunque raggiungibili da domini afferenti ad altre giurisdizioni (.co, .us, .uk, .cn, .tr, ecc.). Ed è proprio questa l’incongruenza che ora i tribunali francesi contestano a Google, mentre dalla California ci si trincera dietro il primo emendamento della Costituzione americana che la presidia libertà di parola e di stampa, e si fa appello alla sacralità dell’autonomia giurisdizionale USA.

La sentenza della Corte di Giustizia europea ha scaturito anche un altro paradosso: in quanto responsabile del trattamento dei dati personali, Google dovrebbe chiedere il consenso per il loro trattamento a ciascun soggetto menzionato nelle pagine web indicizzate. Ma è evidente che si chiederebbe l’impossibile. Insomma, l’Europa si trova tra le mani l’ennesima matassa difficile da sbrigliare. Appena qualche giorno fa il Parlamento italiano ha presentato la Carta dei diritti e dei doveri della rete, una costituzione che ambisce a ispirare il legislatore europeo e dei vari stati dell’unione. Nella Carta non manca il riferimento al diritto all’oblio, ma a questo punto una sua piena affermazione resta una speranza difficile da realizzare.