Pubblicando su Twitter le prime foto del relitto, la Marina Italiana dichiara attraverso un comunicato di aver individuato il relitto del barcone affondato il 18 aprile e che ha causato la morte di circa 800 migranti. Il ritrovamento è avvenuto nella tarda mattinata di giovedì a circa 85 miglia a nord est delle coste libiche durante la ricognizione con i cacciamine Gaeta e Vieste, affiancati nelle ricerche dalla corvetta Sfinge.

Da un comunicato della Procura di Catania, titolare delle indagini, si apprende che nei pressi del relitto è stato individuato un corpo mentre all'interno dello scafo di corpi ne sono stati individuati numerosi.

Personale tecnico specializzato della Marina parla di danni alla prua e sulla parte anteriore della fiancata, molto probabilmente derivanti dall'impatto avvenuto con il mercantile che il giorno del naufragio intervenne per cercare di prestare i primi soccorsi. I cacciamine della Marina Militare Italiana sono dotati di strumentazione molto sofisticata, tra cui il mezzo subacqueo Gigas rivelatosi molto utile alle ricerche.

Al momento del naufragio le vittime accertate delle quali fu possibile recuperare i cadaveri furono 24, mentre i pochi superstiti raccontarono di centinaia di persone inesorabilmente colate a picco insieme al barcone, rimaste intrappolate al suo interno.

Il business milionario dei migranti

Come portato alla luce dalle numerose indagini svolte da varie procure, quello dei migranti clandestini crea un business milionario che fa gola a molti, in particolare alle organizzazioni criminali, sia italiane sia estere.

Pochi giorni addietro una lunga indagine della Direzione Nazionale Antimafia di Palermo ha permesso di sgominare una rete internazionale dedita al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina dando seguito a 24 ordini di arresto.

L'enorme lavoro della procura durato molti mesi ha permesso di stabilire anche le rotte delle migrazioni, che partivano dall'Africa più povera per attraversare la Libia e quindi la traversata verso la Sicilia per giungere successivamente in tutto l'Europa settentrionale.

L'organizzazione era composta da criminali di varie nazionalità, tra le quali eritrei, etiopi, ivoriani e ghanesi e, come specificato dal procuratore Francesco Lo Voi, titolare dell'indagine, l'enorme flusso di soldi si muoveva attraverso il sistema Hawala, basato su un rapporto di reciproca fiducia e quindi atto a evitare la tracciabilità dei capitali stessi.

L'organizzazione disponeva anche di una cellula che operava a Palermo, dove i migranti entravano in contatto con alcuni loro referenti per portare a termine l'attraversamento dello stretto.