"Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere! Rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia, accettando in pieno queste gravose e bellissime verità.”

Il 20 giugno 1992, Paolo Borsellino pronunciava queste parole, durante la veglia in memoria ed onore dell’amico Giovanni Falcone, ucciso a Capaci, il 23 maggio dello stesso anno.

Sarebbe morto nemmeno un mese dopo. Ucciso, come le persone di cui parlava durante questo bellissimo, a tratti poetico discorso, da chi credeva (e crede tutt'oggi) che la vita sia fatta soltanto di quella tipologia di potere, particolarmente ridicola, acquisita con l'intimidazione.

È un potere che funziona, che fa molti e facili proseliti, che sembra vincere, almeno qui e almeno per un po'. Un potere che però è finto e fatto di polvere, che si ferma, si deve fermare per forza, nel momento in cui incontra persone del calibro morale di Paolo Borsellino. Giganti della giustizia, giganti della vita, che sulle loro spalle hanno portato il peso ingombrante, in un mondo sporco come questo, di quegli ideali che vanno difesi da qualunque cosa li possa o li voglia sporcare o, ancor peggio, ridicolizzare e rimpicciolire.

Valori portati alti sulle loro teste. Alti per poterli mostrare a tutti; alti perché si vedessero bene; alti per allontanarli dalla bassezza di chi voleva sbranarli; alti per indicare una strada da seguire, una lotta da combattere, un motivo per cui continuare, anche a fatica, a procedere.

25 anni dopo la strage di Via D'Amelio, quei valori gridano ancora

Il 19 luglio 1992 in Via D'Amelio non è morto nessuno, non nel modo in cui volevano uccidere. Il 19 luglio 1992 nessuno è stato messo a tacere, anzi, quelle voci hanno cominciato a gridare. Il 19 luglio 1992, nel petto gonfio d’orgoglio e di dolore di migliaia di padri d’Italia, seduti a pugni stretti di fronte alla tv, quelle voci hanno urlato che i loro figli non avrebbero dovuto vivere in un paese corrotto, sporco, marcio, fallito.

Hanno urlato di combattere, di continuare a farlo, di raccogliere quei roventi testimoni da terra, ancora sporchi di tritolo e continuare a correre la staffetta della giustizia per far sì che le nuove generazioni imparassero a riconoscere e preferire quel “fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale” citato da Borsellino durante la veglia del giudice Giovanni Falcone.

Oggi non è "solo" il venticinquesimo anniversario della perdita di sei preziosissime vite umane (a condividere la tragica sorte del Giudice Borsellino, furono anche gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina), oggi è il venticinquesimo anno di grida che ancora non hanno smesso di urlare alle orecchie delle nostre coscienze.

Lo fanno incessantemente, anche quando crediamo di non udirle più; anche quando, sbagliando, pensiamo che non valga più la pena ascoltarle, che facciano parte di una lotta anacronistica e leggendaria, destinata all'oblio. A 25 anni dal suono di quell'esplosione, quelle stesse voci che tentarono di spegnere ci dicono che il nostro dovere non può e non deve essere solo quello di ricordare.

Il nostro dovere è quello di cominciare a urlare, se ancora non l’abbiamo fatto, insieme a loro.