Il mondo, così come oggi lo conosciamo, tra soli 30 anni potrebbe non essere più in grado di soddisfare le attuali aspettative di crescita e benessere che vengono continuamente rilanciate dai governi di tutti i paesi ancora legati al dominante modello di sviluppo. Secondo tale modello, benessere e crescita economica vertono necessariamente sul consumo massivo di beni e servizi, prodotti su scala mondiale tramite il ricorso a tecnologie e metodi industriali che per funzionare sfruttano ingenti quantitativi di risorse naturali. Gli esperti concordano nel sostenere che i cambiamenti climatici, di cui tanto si è parlato nell’ultimo decennio senza che al dibattito internazionale conseguisse alcuna degna politica globale di prevenzione, che mirasse quantomeno a limitare le emissioni nocive di gas ad effetto serra, sono già in atto.
A che punto siamo?
Ci troviamo all’inizio di una nuova era climatica. I livelli di Co₂ nell’atmosfera, secondo i rilevamenti ufficiali del 2016 condotti dall’Omm (Organizzazione meteorologica mondiale, ndr), non sono mai stati così alti e raggiungono le 400 parti per milione, ovvero 400 molecole di anidride carbonica ogni milione di molecole dell’atmosfera. Secondo le stime, le 450 ppm rappresentano il punto di non ritorno, cioè la soglia massima raggiunta la quale non sarà più possibile mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C rispetto all’era preindustriale. Obiettivo quest'ultimo che traccia "la direzione di marcia nella lotta ai cambiamenti climatici avviata a Parigi" e rilanciata nel corso del 2016 con la conferenza mondiale sul clima tenutasi a Marrakech lo scorso novembre.
Questione di politica energetica
L'accordo di Parigi, confermato da tutti i governi dei paesi che hanno partecipato al Cop22 di Marrakech, segna un punto di svolta. Eppure i dati sulle emissioni svelano una realtà diversa. I motivi della resistenza al cambiamento da parte dei paesi più industrializzati e inquinanti come gli Stati Uniti o di quelli emergenti come Cina, India e Brasile, d’altra parte, appaiono facilmente intuibili.
Questione di politica energetica, sviluppo e, certamente, di equilibri geopolitici. Se gli Stati Uniti si confermano primo consumatore - e primo produttore - mondiale di petrolio, con il 20,8% del consumo totale (dati ENI relativi al 2015, ndr), la Cina si attesta al secondo posto con l' 11,9%. Ad una diminuzione della domanda nei paesi dell’eurozona, timidamente impegnati nello sfruttamento di energie rinnovabili, corrisponde un costante aumento della richiesta da parte di quei paesi, le cui economie emergenti richiedono immediate fonti di approvvigionamento energetico.
Quali scenari si prospettano?
L’incremento della produzione di greggio, merito soprattutto delle innovative e più invasive tecniche di estrazione utilizzate nei pozzi direzionali e nelle miniere di sabbie bituminose, - si calcola che i giacimenti di sabbie bituminose rappresentino i 2/3 delle riserve mondiali di petrolio - rilancia l’emergenza ambientale prospettando nuovi timori sul riscaldamento globale già in atto. In attesa che gli accordi presi in sede diplomatica assumano valore giuridico vincolante, è opportuno chiedersi che cosa si sta già facendo concretamente per affrontare il problema, laddove esso sia percepito e trattato sulla base delle evidenti responsabilità che ciascun essere umano ha nei confronti delle future generazioni.
Le politiche che mirano all’istituzione di modelli di sviluppo sostenibile, lungi dall’essere prerogativa esclusiva dei governi, possono essere implementate con successo secondo un approccio di tipo down-top, partendo cioè dalla base consapevole e responsabile della società civile fino ad arrivare ai vertici. Agricoltura urbana, orti sinergici, permacultura, ecovillaggi, sono solo alcuni esempi di azioni locali, mosse da un pensiero globale, volte a salvaguardare la vita del pianeta e il benessere delle generazioni future. Di queste realtà torneremo a parlare.