A partire dalla prima metà degl’anni 70 del secolo scorso è andata affermandosi una concezione di ‘sviluppo’ fortemente caratterizzata dal riconoscimento della problematica interdipendenza tra economia e Ambiente. Il rapporto su I limiti dello sviluppo, risultato di uno studio commissionato al MIT (Massachusetts Institute of Technology, ndr) dal Club di Roma e pubblicato nel 1972, illustrava efficacemente che un’illimitata crescita della produttività avrebbe avuto come principale conseguenza il rapido declino delle fonti energetiche non rinnovabili e un progressivo depauperamento del capitale naturale, causato in primo luogo dal rilascio di sostanze inquinanti nella biosfera, nonché in generale da tutte le attività associate all’uomo, includendo in questo insieme anche la riproduzione e i suoi effetti, calcolabili in termini di aumento demografico costante e quindi di impronta ecologica.

Il cosiddetto impatto antropico, oggi come oggi, è misurabile a partire da una semplice osservazione dei profondi mutamenti verificatisi in natura dalla rivoluzione industriale ad oggi. Malgrado ciò, non sempre la politica dei governi è riuscita ad andare oltre le rituali dichiarazioni d’intenti. Il servilismo nei confronti delle multinazionali che tentano di soddisfare la domanda mondiale di combustibili fossili ha determinato nell’ultimo ventennio un immobilismo istituzionale a fronte del quale si è da più parti avvertita la cogente necessità di operare un cambiamento dal basso, secondo lo slogan “Pensiero globale, Azione locale”.

La rivoluzione sostenibile dal basso: gli ecovillaggi.

Nelle parole di Holmgren, agronomo australiano cui viene riconosciuta - insieme a Mollison - la paternità dei metodi e delle pratiche riconducibili al modello di permacultura ed ecovillaggio, “le strategie ‘dal basso verso l'alto’ più rilevanti partono dall'individuo e si sviluppano attraverso l'esempio e l'emulazione fino a generare cambiamenti di massa”.

È un fatto che dagli anni ’80 in poi, i progetti incentrati sulla proposta metodologica di Holmgren e Mollison si siano moltiplicati in tutto il mondo, assumendo forme differenti a seconda degli attori coinvolti, della loro coscienza ambientale, delle competenze e conoscenze apportate da ciascuno e comunque in funzione di una visione d’insieme condivisa che tenta di affermare il principio della “stabilità” nelle forme di un sano equilibrio tra disponibilità e impiego di risorse, piuttosto che ricorrere all’universo di significato spesso evocato dal concetto inflazionato di “sviluppo”.

L’ecovillaggio può quindi dirsi un peculiare tipo di comunità intenzionale, fondata sull’autoproduzione di cibo mediante l’applicazione dei metodi di agricoltura biologica e permacultura, sfruttamento di energie rinnovabili nei limiti delle capacità che le stesse hanno di rigenerarsi, utilizzo di materiali reperiti in loco per la costruzione di nuclei abitativi a basso impatto ambientale (legno, pietra, paglia e fango), allungamento del ciclo di vita degli oggetti mediante riconversione o riciclo, smaltimento razionale dei rifiuti, economia locale anche basata sull’utilizzo di moneta alternativa o baratto, cooperativismo e cohousing per contrastare efficacemente gli effetti negativi della socialità mediatizzata (fenomeno tipico del mondo globalizzato), razionalizzazione del lavoro necessario alla produzione di beni e servizi, partecipazione attiva dei membri nei processi decisionali, valorizzazione delle differenze culturali sotto il profilo della complementarietà, di una cultura ecologica vista come fondamento di una società consapevole dei fattori di rischio legati all’attività dell’uomo sulla Terra, valorizzazione dell’uomo e promozione della giustizia intergenerazionale.

Tutto questo non è il rifarsi presente di un fatuo ottimismo ecologista. Non si tratta neppure della forzata istituzionalizzazione di capziose utopie. È piuttosto il cardine di una rivoluzione sostenibile che auspichiamo continui.