La tenda di Abu A. non è come le altre. Ci si lascia la malinconia del campo profughi alle proprie spalle per entrare in una stanza abbastanza grande, addobbata come fosse un sontuoso salotto caldo ed accogliente. Alle pareti e sul pavimento ci sono tappeti colorati, due divani su cui sedersi, una seconda stanza con letto matrimoniale su cui, le sue mani di fabbro, hanno inciso le iniziali sue e quelle di sua moglie. Lei è una donna dolce e sorridente, prepara popcorn e tè per i suoi ospiti mentre la loro figlia più piccola, vestita di un pigiamino rosa, saltella, felice per la presenza dei volontari, ormai volti amici e di cui fidarsi.
Abu A lascia che i suoi ospiti si accomodino sul divano, mentre lui prende posto su di una sedia. Sorride e chiacchiera. Ha gli occhi profondi e malinconici. Il mal di schiena non gli da tregua e ogni volta che il suo datore di lavoro gli chiede di sollevare un carico sente quella fitta che gli mozza il fiato, gli piega il corpo ma soprattutto l’anima.
La testimonianza del carcere in Siria
Un dolore che lo riporta con la mente alla sua vera casa, quella in Siria, bombardata da aerei da combattimento che gli hanno fatto esplodere anche la sua auto, il taxi grazie al quale si guadagnava il pane. Abu A ha trascorso un anno in carcere fra torture e umiliazioni; è in quel posto maledetto che lo ha raggiunto la notizia della morte di sua moglie e sua sorella.
Ora Abu A è lontano dalla sua terra, da quel governo che avrebbe dovuto prendersi cura di lui e della sua famiglia, e che invece lo ha bombardato e gli ha tolto tutto. In Libano, nel calore che riescono a dargli la sua seconda moglie e i suoi tre figli, è tornato a sorridere, anche se si tratta di un sorriso amaro. “Non m’importa di me” dice “Ma vorrei che i miei figli crescano in un altro luogo, lontano da qui”. Mi guarda sorridendo: “Chiuditeli in valigia e portateli in Italia”.